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Logos e “Oriente” (parte seconda)

Non perdete la prima parte: “Logos e “Oriente”, a partire da alcune suggestioni di Joseph Ratzinger”

A proposito del cammino storico del logos

Non è evidentemente qui possibile, neppure per sommi capi, ripercorrere le fasi di quel cammino storico che – tra aspetti di continuità e aspetti di discontinuità – ha portato in Grecia il termine e la nozione di logos a conoscere quella polisemia che è venuta a caratterizzarli, e che li rende pressoché intraducibili nelle lingue altre e diverse e, nello specifico, nelle lingue moderne. Dopo le prime attestazioni nei poemi omerici, e a partire dal senso originario di “parola” e poi di “narrazione”, è all’interno di una filosofia che, per dirla con Michel Fattal,[1] non tende al superamento dell’esperienza (come almeno fin da Anassagora e poi  attraverso Platone, Aristotele e Plotino), ma piuttosto all’accorpamento nell’esperienza, ossia non tende a svilupparsi in senso verticale verso una spiritualità separata dal mondo, come la prima, ma piuttosto in senso orizzontale, dalla  materia alla materia, come in Eraclito e negli stoici, è all’interno di questa filosofia che nasce e si sviluppa il concetto di logos. Esso è inteso quale principio cosmico, razionale e teologico, il quale, agendo in forma immanente e trasversale nelle cose, le raccoglie e le unifica, ossia le mette e le mantiene in ordine. Lungo il suo cammino storico, il logos filosofico greco, incontrandosi con la “parola” (dabar) creatrice veterotestamentaria, parola di Persona divina, si fa così nel prologo giovanneo (Gv 1,1-18), Logos divino e personale, Ragione-Parola creatrice, che conferisce alla realtà una razionalità intrinseca e che, fattasi carne in Gesù Cristo, diviene redentrice.[2] E tuttavia, prima dell’incontro del logos greco con la “parola” creatrice di ambito veterotestamentario, ed anzi nelle fasi più antiche del suo cammino in Occidente, è il logos eracliteo, in particolare, ad aver offerto agli studiosi elementi per interrogarsi sulle analogie – e conseguentemente per porre il problema di possibili e documentabili contatti storici – con quel principio o quella legge universali che, seppur diversamente declinati (come tao o dao, come dharma, come rta o asha), sono al centro di grandi visioni filosofico-religiose d’Oriente, alle quali tra poco addiverremo.

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Di fatto, con Eraclito, il logos, “parola” autentica, assume il volto di un  principio divino «che tutto governa penetrando in tutto» (B 41). Siamo di fronte ad un’impostazione tendenzialmente monista, per la quale «da tutte le cose nasce l’uno e dall’uno tutte le cose» (22 B 10). Così Eraclito può affermare: «Non dando ascolto a me ma alla ragione (logos) è saggio ammettere che tutto è uno» (22 B 50). Del logos che è nella realtà partecipa il logos umano (A 20), strumento di cui l’uomo è dotato per conoscere la verità (A 16), e dunque criterio di verità, a tutti comune e divino (ivi). E l’Uno – alla cui comprensione guida il logos «l’Uno, l’unico sapiente, non vuole e vuole essere chiamato col nome di Zeus» (B 32). Affermazione, perspicua nella sua ambiguità, che mostra – se così è consentito esprimerci – il “disagio” del logos filosofico di fronte alle rappresentazioni tradizionali del divino, come pure di fronte – così in altri luoghi della riflessione eraclitea – alle pratiche rituali della religione ufficiale e delle forme religiose misteriche (B 5; 14; 68; 71; 128).[3]

Di fatto, nell’Occidente greco, il cammino del logos lo porta ad esercitare una diuturna critica nei confronti delle rappresentazioni tradizionali mitiche del divino politeistico, e nei confronti delle altrettanto tradizionali prassi cultuali civiche come pure di quelle mistiche e misteriche, prassi che a quelle rappresentazioni mitiche apparivano strettamente connesse. È lungo il cammino del logos filosofico che emerge quella istanza veritativa che avrebbe, per esempio, portato il Platone della Repubblica (II,379a) ad affermare, in risposta a chi si interroga su quali siano i modelli cui attenersi per parlare intorno agli dei (oi typoi peri theologias), che il dio – e si noti il singolare – «va sempre rappresentato così come egli è veramente», e questo in qualsiasi genere poetico (epico, lirico, tragico) lo si voglia rappresentare. Passo importante, questo, nel quale per la prima volta nella cultura greca e occidentale compare la parola theologia, e che offre esemplarmente una istanza veritativa che sarebbe stata fatta propria dalla religio cristiana – non a caso presso alcuni autori cristiani dei primi secoli, chiamata piuttosto philosophia cristiana – a fronte del mondo delle religiones “pagane”, ossia dei molteplici complessi mitico-rituali espressi dalle diverse tradizioni religiose nazionali a struttura politeistica del mondo mediterraneo e vicino-orientale.

In sostanza, la religio cristiana si sarebbe inserita, per usare la tripartizione varroniana relativa alle tre “teologie” come riferita da Agostino nel De civitate Dei(VI,5,1-3), nel solco della “teologia fisica” greco-romana, ossia nel solco della indagine razionale filosofica intorno alla natura (physis) delle cose, con la sua critica nei confronti sia della “teologia mitica” (ossia delle tradizionali narrazioni mitiche intorno agli dei), come della “teologia civica” (ossia del complesso di pratiche cultuali patrocinate dalla civitas, e tese alla garanzia della vita e sussistenza di questa).

I concetti di rta/asha e dharma

Veniamo ora a quelle nozioni che, espresse nell’ambito di alcune tradizioni orientali, offrirebbero,  come è stato suggerito in sede di studi, un’aria di famiglia. Come la definisce Roy Rappaport, si tratta di una «family resemblance»,[4] che non è identità, con la polisemica nozione greca di logos. A principiare dalla nozione espressa con il termine sanscrito rta, tradotto solitamente come “ordine” o “legge”. Esso è imparentato linguisticamente e concettualmente con l’avestico asha, e tale rapporto rimanda alla fase protoaria o indo-iranica, relativa alla comunanza degli antenati degli arii iranici con gli arii vedici, prima che questi migrassero nella valle dell’Indo e poi del Gange, e quelli verso la terra che da loro sarebbe stata denominata Iran nel II millennio a.C. Stabilitisi nelle rispettive sedi storiche, gli uni e gli altri esprimono con i termini di rtae di asha l’idea di un ordine o di una legge universale, una idea che conosce, in un caso come nell’altro, un lungo cammino storico.

Infatti, nel mondo religioso indiano la nozione di rtasi affaccia con la letteratura vedica, la quale costituisce la testimonianza più antica della religione indiana (se possiamo continuare a chiamarla così, pur consci delle differenziazioni in senso sincronico e diacronico che essa conobbe e che portano talora gli studi a rifiutare l’idea di una religione indiana e, nello specifico, della possibilità di parlare di Induismo come di un fenomeno religioso circoscrivibile pur se articolato). Nell’ideologia vedica, come espressa in particolare nel Ṛigveda, che offre, se si prescinde dalle sue parti più recenti, un quadro politeistico-naturistico, rtaè la legge universale che presiede al mondo fisico, come ordine cosmico, a quello etico – come principio di armonia e di giustizia universali – e alla prassi rituale (si confronti il latino ritus), che ad essa deve conformarsi, pena il collasso del retto funzionamento del cosmo e della vita sociale. Lo rta è in rapporto diretto con Varuna, il dio o asura che – linguisticamente e tipologicamente assimilabile all’Ahura Mazda avestico – occupa, in grazia della sua connotazione uranica, una posizione particolare nel mondo vedico più antico. Infatti, Varuna possiede fondamentali funzioni demiurgiche ed etiche, in quanto custode dello rta. Anche Mithra, il dio che tutela i patti, nel pantheon vedico ha uno stretto rapporto con lo rta, seppure ad un livello inferiore a quello di Varuna.

Merita di essere valorizzato questo tratto, ossia il rapporto tra lo rtae il divino personale, che nell’Induismo è un divino plurale – laddove l’unicità pertiene al divino impersonale, il principio o arché primordiale teorizzato dalla speculazione indiana successiva, alla quale faremo tra poco cenno. Al riguardo, il Ṛigveda mostra come anche gli dei siano legati allo rta, nel senso che ne sono garanti e più in genere che le loro azioni debbono conformarsi ad esso, il quale in qualche modo a loro si impone ed è superiore. E tuttavia sono gli uomini a rafforzare il potere divino, secondo una tipica prospettiva politeistica, per il tramite dell’esercizio rituale e in particolare di quello sacrificale. Legami con la nozione indiana di rta offre, in Iran, come detto, la nozione avestica di asha, in antico persiano arta. Come quella si lega originariamente a una volontà personale, in particolare quella di Varuna nel pantheon indiano, così anche questa è strettamente legata alla entità divina somma dello Zoroastrismo, Ahura Mazda. In un quadro che è al contempo monoteistico e dualistico, e dunque peculiare in rapporto ai quadri degli altri monoteismi storici, quali l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam, asha è uno dei sei Amesha Spenta, gli “Immortali benefici”, manifestazioni o ipostasi agenti di Ahura Mazda stesso. In sede di studi storico-religiosi,[5] è stato osservato come il concetto di ordine universale, nelle testimonianze più antiche dell’India e dell’Iran, abbia un riferimento insieme cosmico ed etico, oltre che rituale, ma non deterministico né meccanicistico, quasi si trattasse di un Destino impersonale e sovrapersonale che tutto domini. E come, in un concetto di ordine così inteso, la divinità personale abbia una parte essenziale, sia essa l’Ahura Mazda, padre dell’Asha, nei testi avestici, e dunque in un contesto monoteistico, sia il Varuna, vindice e interprete onniveggente – in grazia della sua qualità “uranica” – dello rta, in un contesto politeistico quale quello vedico.

Se un parallelo si può rintracciare nella Grecia più antica, e prima della rielaborazione e della critica filosofiche del patrimonio mitico-rituale tradizionale, con le nozioni di rtae di asha, nel loro esprimere l’idea di un ordine universale attivo sul piano cosmico ed etico, e soprattutto nel loro essere legate a una volontà personale, ossia alla volontà di una persona divina, collocata in una posizione somma anche se non unica, esso sarà piuttosto da individuare nella idea di Dike, la “giustizia”, rappresentata per via mitica come figlia di Zeus, colui che punisce l’hybris di uomini come di dei. Una presenza, quella di Dike, ancora attiva nello stesso teoreta del logos, Eraclito, cui si deve la celebre frase: «Il Sole non uscirà dai suoi limiti, altrimenti le Erinni, ministre di Dike, sapranno ritrovarlo» (B 94). E ancora «Dike raggiungerà i fabbricatori e i testimoni di menzogne» (B 28).

Maria Vittoria Cerutti

Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 

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[1]Tra i suoi vari studi: M. Fattal, Logos et langage chez Plotin et avant Plotin, L’Harmattan, Paris 2003; Id., Du Logos de Plotin au Logos de saint Jean. Vers la solution d’un problème métaphysique?, Les Éditions du Cerf, Paris 2016.

[2]Tra gli ultimi studi al riguardo, si possono vedere: R. Radice, A. Valvo (a cura di), Dal logos dei greci e dei romani al Logos di Dio. Ricordando Marta Sordi, Vita e Pensiero, Milano 2011; A.M. Mazzanti (a cura di), Il Logos di Dio e il logos dell’uomo. Concezioni antropologiche nel mondo antico e riflessi contemporanei, Vita e Pensiero, Milano 2014.

[3]Sul tema del rapporto con gli altri: R.A. Rappaport, Ritual and Religion in the Making of Humanity, Cambridge University Press, Cambridge 1999.

[4]Cf. Rappaport, op. cit., 353.

[5]Cf. Bianchi 1986: Bianchi, Problemi di Storia delle religioni, Studium, Roma 1986.

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