Logos e “Oriente”, a partire da alcune suggestioni di Joseph Ratzinger

Lo speciale “Sui sentieri del Logos. Percorsi tra storia, filosofia e teologia delle religioni” è a cura di Gabriele Palasciano. Un testo di Maria Vittoria Cerutti, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Joseph Ratzinger, il Logos e le religioni

A diversi anni di distanza dalla riflessione sviluppata a Ratisbona da Joseph Ratzinger sul logos e, nello specifico, sulla teologia islamica nei suoi rapporti con la nozione di logos, desideriamo qui ripercorrere le vie del logos in una direzione diversa, ma sempre a partire da alcune suggestioni offerte dallo stesso Ratzinger in interventi nei quali egli ha avuto modo – in relazione a tematiche diverse e nel confronto con interlocutori diversi – di fare specifici riferimenti alle tradizioni orientali. Di fatto, il profondo interesse di Ratzinger per il mondo delle religioni non cristiane, oltre che per il posto del Cristianesimo nel mondo delle religioni non ha bisogno di essere qui documentato.[1]Egli ha trovato modo di esprimersi, in particolare negli anni del suo insegnamento accademico in Germania, in lucide analisi e suggestive sintesi che pertengono l’ambito della storia comparata delle religioni, ed offrono linfa e materia per quello che sarebbe poi stato il suo importante contributo alla riflessione propriamente teologica sulle religioni.

Con le sue ampie e penetranti riflessioni sulle religioni non cristiane, nonché sul rapporto tra queste e il Cristianesimo, riflessioni condotte in una prospettiva storica e più specificamente storico-comparativa prima che in una prospettiva teologica, nella convinzione che la prima costituisca il preludio imprescindibile alla seconda,[2]Ratzinger prende le distanze da impostazioni più propriamente fenomenologiche che non storiche, quali quelle ad esempio di Mircea Eliade, o da quelle pertinenti piuttosto all’antropologia religiosa, quale espressa negli ultimi decenni ad esempio da Julien Ries. Infatti, le une come le altre, le fenomenologiche come le antropologiche, seppur in modi diversi, fanno riferimento a una concezione fondamentalmente univoca del fatto religioso,[3]nel senso che esso rimanderebbe, al di là delle diversificate espressioni storiche, o a una struttura ontologica univoca (il “sacro” come teorizzato, tra i primi, da Rudolph Otto e poi da Eliade), o a un altrettanto univoco dato antropologico (l’homo religiosus come strutturalmente aperto al “sacro”, come teorizzato appunto, tra  gli altri, da Ries).

Invece, per Ratzinger, è piuttosto l’indagine storica e più specificamente storico-comparativa, più che non quella fenomenologica o tale da rimandare a un’antropologia religiosa come sopra evocata, a consentire di illuminare – dietro le affinità che si mostrano all’occhio dell’indagatore – le profonde discontinuità che intervengono a caratterizzare la pluralità delle religioni. Queste ultime, pertanto, se non si offrono come una massa indistinta, neppure si offrono sotto le forme di un anarchico e illimitato pluralismo, ma piuttosto lasciano intravedere una serie di tipi storici di religioni, indagabili nella loro struttura spirituale e nel loro divenire storico.[4]Particolare e costante rilievo nel corso delle indagini di Ratzinger sul mondo delle religioni e sul ruolo del Cristianesimo in esso, è venuta assumendo – non senza una parziale continuità con studi precedenti e in particolare con quelli di Jean Daniélou al riguardo[5]– la distinzione tra due tipi religiosi che, nei suoi primi studi sul tema negli anni Sessanta dello scorso secolo, Ratzinger  definisce come il  tipo costituito dal monoteismo e il tipo costituito dalla mistica. Il primo comporta la nozione di un Dio personale (quello al centro, appunto, degli orizzonti monoteistici) mentre il secondo comporta quella di un principio divino impersonale (proprio degli orizzonti, appunto, monistici, costituiti dalle grandi religioni asiatiche e in particolare dall’Induismo). Il discrimine tra la personalità del Dio monoteistico e l’impersonalità del principio divino degli orizzonti monistici, si offre anche come discrimine – in tal senso va la penetrante analisi storica e comparativa di Ratzinger – tra una concezione che ha al suo centro la nozione della distinzione (tra Creatore e creatura, tra Dio e mondo, tra Deus e natura) e una concezione che ha, invece, al suo centro la  nozione dell’indistinzione (tra principio divino e realtà – divina, cosmica e umana – che da quello proviene sulla base di un processo di emanatio ex ente e a quello ritorna, in una perenne dialettica che non conosce soluzione). Si tratta di un orizzonte, quest’ultimo, all’interno del quale ogni forma di distinzione è colpevole, deprecata e in taluni contesti illusoria, e nel quale l’individuo – in quanto distinto, appunto – è chiamato a rifondersi nell’indistinto principio del tutto.

Ci sia consentito qui evocare un passaggio di un grande storico delle religioni italiano, Ugo Bianchi, che sviluppa una analoga prospettiva, affermando come nelle concezioni monistiche «si ha una consustanzialità degli esseri molteplici rispetto all’Uno, che crea un drammatico (per quanto non sempre cosciente) nec tecum nec sine te, per cui il singolo non può esistere che spezzando e impoverendo l’Uno, da cui esso sfugge per essere se stesso, e a cui deve in qualche modo ritornare per essere ancora se stesso, ma anche per annullarsi in lui. Nella visione creazionistica, invece, [scil. si ha] una concezione “creaturale”, con degli esseri finiti e molteplici: i quali hanno anche essi una vocazione di ritorno all’Uno, che però lascia intatto il carattere creaturale dell’essere finito. Qui l’Uno è insieme il supremamente distinto […] e la sorgente degli esseri creaturali, anch’essi distinti: per cui l’indistinto è confinato in una negatività senza riscatto. La distinzione degli esseri finiti coincide con la loro venuta alla esistenza, e questa distinzione si realizza non come colpevole o illusoria rottura di una indistinzione primordiale, ma come una partecipazione alla suprema distinzione di un primordiale che è Persona, e Persona sommamente distinta, “assolutamente” distinta».[6]

Ma torniamo alle analisi di Ratzinger che, sempre in relazione alla distinzione (di cui sopra) tra tipi diversi di orizzonti religiosi, ha altresì offerto efficaci analisi tese a valorizzare la distinzione tra la nozione di individuo, alla quale fanno riferimento i quadri monistici sopra evocati, e quella di persona, quale venutasi a sviluppare in Occidente, e in particolare – senza ignorare il sostrato classico – in relazione allo sviluppo della riflessione teologica trinitaria. Quanto Ratzinger viene ad affermare in un suo intervento, volto a comparare la fede cristiana con aspetti del  pensiero greco, può valere – con le dovute differenze – anche in relazione alla comparazione tra la visione monoteistica propria del Cristianesimo e i quadri monistici orientali. Per la prima, «la persona non è semplicemente un individuo, un esemplare riprodotto attraverso la divisione dell’idea nella materia, bensì proprio “persona” […]. A me sembra che in questo passaggio dall’individuo alla persona stia tutta la tensione della transizione dall’Antichità al Cristianesimo, dal Platonismo alla fede. Questo essere determinato non è affatto secondario, qualcosa che ci permetterebbe di presentire solo frammentariamente l’universale come ciò che è autentico. In quanto minimo, esso è un massimo; in quanto unico e irripetibile, esso è una realtà suprema e autentica».[7]

Il Logos e l’Oriente

È ora giunto il momento di fare un passo in avanti rispetto a questa premessa, la quale, mentre ci ha mostrato una delle modalità peculiari secondo cui si è venuto indirizzando l’interesse storico e storico-comparativo di Ratzinger nei confronti del mondo delle religioni, ci ha anche offerto un quadro di riferimenti – quelli con al centro la nozione di divino come personale, e quelli con al centro un principio divino impersonale – al quale dovremo ritornare nel prosieguo della nostra riflessione. Questa, ora, deve accostare il tema del logos e dei suoi  problematici omologhi “orientali”, e lo farà ancora una volta a partire da suggestioni offerteci dallo stesso Ratzinger.

In un dialogo ad ampio raggio con Ernesto Galli della Loggia, su “storia, politica, religione”, tenutosi il 25 ottobre 2004,[8]condotto con lo scopo, come afferma lo stesso Ratzinger,«di cercare insieme, forse, non risposte già pronte, ma almeno piste sulle quali si può andare avanti», in merito  alla possibilità di individuare una piattaforma di valori comuni tra le varie culture, Ratzinger torna – sollecitato dal suo interlocutore – sul tema dei monoteismi, per riconoscere come il monoteismo non «possa essere un minimo comune denominatore per l’unificazione e la coesione pacifica dei popoli […], soprattutto un monoteismo costruito artificialmente fuori dalla realtà dei monoteismi concreti […]. Non solo perché un monoteismo astratto dalle realtà vissute non ha vita, quindi non ha forza, ma anche perché il monoteismo copre solo una parte del mondo e delle culture. Abbiamo culture non monoteiste, soprattutto il Buddhismo, e abbiamo il fatto che in diverse parti del mondo il laicismo radicale non ha distrutto la religione, ma ha terribilmente debilitato la forza delle religioni. Pensiamo alla Cina, dove il Marxismo, così come un tipo di presunto razionalismo, ha in ampia misura distrutto la tradizione religiosa. Pensiamo al Giappone, dove il laicismo occidentale ha marginalizzato in gran parte le tradizioni religiose. Quindi abbiamo un panorama culturale e religioso molto diversificato. Abbiamo le religioni monoteiste molto divise tra di loro, con concetti diversi di monoteismo, abbiamo religioni non teiste, abbiamo religioni cosmiche con idee della divinità diverse, e abbiamo la presenza del laicismo, una forza presente in tutte le civilizzazioni».E lo stesso laicismo, pur «realmente presente in tutte le culture, in tutte le parti del mondo», è da escludere – secondo Ratzinger – possa costituire la forza che crea la convivenza, essendo una «ideologia parziale», in quanto «si limita alla superficie dell’essere umano e lascia aperte tutte le questioni realmente decisive per la vita umana, frammenta la persona umana e non dà le risposte che possono offrire una coesione comune». Dopo questo pur rapido ma pertinente sguardo comparativo sui mondi religiosi – sguardo non omogeneizzante ma piuttosto “differenziante”, ossia tale da non sottovalutarne la irriducibile discontinuità –, ecco allora Ratzinger interrogarsi sulla possibilità di individuare comportamenti morali fondamentali, presupposti dalla stessa natura umana che tutti accomuna, al di là delle diverse fedi. Di fatto, ricorda Ratzinger, «in forme diverse, questa stessa conoscenza è presente anche nelle altre culture, seppure non nello stesso modo, e dal nostro punto di vista è ancora da migliorare, come le nostre conoscenze. Pensiamo all’idea del tao nel mondo cinese, del dharma nel mondo indiano: concetti che presuppongono che l’uomo si trovi in un ordine del cosmo, che gli indica come vivere e che precede le nostre decisioni». Sulla possibilità o meno di individuare una piattaforma per una visione etica comune, il teologo tedesco ritorna in un altro intervento al quale ora faremo cenno e nel quale, come vedremo, ancora una volta la sensibilità storica e storico-comparativa, che caratterizza il suo approccio ai mondi religiosi altri e diversi, lo porta – a fronte di facili irenismi – a illuminare le distinzioni tra i quadri culturali e religiosi a sfondo monistico, in cui  trovano posto le nozioni sopra evocate, ossia quelle di taoe di dharma, e i quadri monoteistici ebraico e cristiano. Infatti, il 20 settembre 2002 a Trieste, nel discorso pronunciato ricevendo il premio Liberal in occasione delle Giornate internazionali del pensiero filosoficoRatzinger delinea un efficace affresco: «Da una parte vi è la visione statica, orientata alla conservazione, che forse si manifesta nel modo più evidente nell’universalismo cinese: l’ordine del cielo, eternamente eguale, offre il suo criterio anche all’agire terreno. È il tao, la legge dell’essere e della realtà, che gli uomini devono riconoscere e riprendere nell’agire. Il tao è legge sia cosmica che morale. Garantisce l’armonia di cielo e terra e così anche l’armonia della vita politica e sociale. Disordine, turbamento della pace, caos insorgono quando l’uomo si rivolge contro il tao, vive ignorandolo o contro di esso. Allora contro tali turbamenti e devastazioni della vita comune deve essere restaurato il tao e così il mondo reso nuovamente vivibile. Tutto dipende dalla conservazione dell’ordine durevole o dal ritorno a esso, qualora fosse stato abbandonato. Qualcosa di analogo è espresso nel concetto indiano del dharma, che significa l’ordine tanto cosmico che etico e sociale, al quale l’uomo deve adeguarsi, perché la vita si sviluppi armonicamente. Il Buddhismo ha relativizzato questa visione insieme cosmica, politica e religiosa, in quanto ha spiegato tutto quanto il mondo come un ciclo di sofferenze; la salvezza non va cercata nel cosmo, ma nell’uscire da esso. Ma non ha creato nessuna nuova visione politica, in quanto la ricerca della salvezza è concepita in modo non mondano – come orientamento al nirvana; per il mondo in quanto tale non vengono proposti nuovi modelli […]. Diversamente la fede d’Israele. Anch’essa in realtà con l’alleanza stretta da Dio con Noè conosce qualcosa come un ordine cosmico e la promessa della sua stabilità. Ma per la fede dello stesso Israele l’orientamento verso il futuro diventa sempre più evidente. Non l’eternamente immobile, l’oggi sempre uguale a se stesso, ma il domani, il futuro non ancora presente appare come il luogo della salvezza». E pertanto: «Nuovo, rispetto alle visioni cosmiche, nelle quali semplicemente il tao o il dharma stesso si presentano come la potenza del divino, come il “divino”, è dunque non solo l’apparire della storia non riducibile al cosmo, ma questa terza realtà e allo stesso tempo prima: un Dio che agisce, al quale si rivolge la speranza degli oppressi».

L’indagatore del mondo delle religioni è sollecitato a proseguire nella comparazione tra mondi religiosi qui abbozzata e, nello specifico, a interrogarsi ulteriormente sulle nozioni “orientali” qui evocate, quali quelle di tao e di dharma, e nozioni “occidentali” che nella storia degli studi sono state spesso, e con esiti diversi, ad esse accostate. Mi riferisco, in particolare, alla nozione greca di logos. I rapporti storici o anche solo fenomenologici, ossia – in questo secondo caso – tali da non conoscere documentati rapporti e influssi o dipendenze, tra questa e quelle, sono oggetto da tempo di una vasta letteratura scientifica che naturalmente non è possibile qui ripercorrere neppure per sommi capi. Riteniamo, tuttavia, di un qualche interesse per il lettore offrire qui qualche rapido spunto riguardo al tema delle possibili analogie tra il logos greco e le nozioni orientali sopra ricordate, alle quali aggiungeremo altre nozioni, quali quelle di rta e di asha, ad esse storicamente connesse e tali da ampliare – senza peraltro esaurirlo – il quadro dei possibili ma problematici “omologhi” del logos greco. Il tema in questione merita di essere delineato, seppur per rapidi schizzi, in una prospettiva che è dinamica e non statica. E qui accogliamo le suggestioni offerte dalla metodologia storico-religiosa quale professata in Italia a partire da Raffaele Pettazzoni, e sviluppata dalla Scuola italiana di storia delle religioni, la quale – pur con declinazioni diverse – alla sua lezione metodologica ampiamente si richiama. Secondo tale lezione, la comparazione, che non è mera registrazione di somiglianze e di differenze, si rivela efficace ai fini di una migliore comprensione storica – dato che questo è il suo scopo – dei fatti religiosi che essa va a indagare e a comparare, quando questi fatti non siano estratti dal milieu storico e culturale che solo ad essi dà vita e senso, né siano “fotografati” come mediante istantanee, ma siano piuttosto inseguiti nella loro diacronia, ossia nel loro sviluppo, nella loro evoluzione o involuzione, in sostanza nel loro percorso storico.

Fine prima parte

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[1]Cf. J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il Cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2005.

[2]Cf. P. Coda, Sul posto del Cristianesimo nella storia delle religioni: attualità e rilevanza di una chiave di lettura, PATH 6, 2007, 239-253.

[3]Cf. U. Bianchi, «Religione, mito e storia: con particolare riguardo ai miti di origini presso i primitivi», in: AA.VV., Il problema dell’esperienza religiosa, Morcelliana, Brescia 1961, 302-315; Id., Saggi di metodologia della storia delle religioni, Ateneo, Roma 1991; G. Sfameni Gasparro, Introduzione alla storia delle religioni, Laterza, Roma-Bari 2011.

[4]Cf. J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza.

[5]Ci piace qui ricordare un convegno, promosso dalla Pontificia Università della Santa Croce e dalla Fondazione Ratzinger (Roma, 12-13.2.2015), intitolato J. Daniélou e J. Ratzinger di fronte al mistero della storia, del quale sono in corso di pubblicazione gli Atti curati da G. Maspero e J. Lynch.

[6]U.Bianchi, «Religione, mito e storia», 314.

[7]J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 2000 (ed.or. 1968), 150.

[8]Cf. Il Foglio, 27-28.10.2004, da cui sono tratte le citazioni.

Speciale “Sui sentieri del Logos”:

Logos e “Oriente” (parte seconda)

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