La preesistenza del Logos. Cosa significa? Perché è importante?

Lo speciale “Sui sentieri del Logos. Percorsi tra storia, filosofia e teologia delle religioni” è a cura di Gabriele Palasciano. Un testo di Gerald C. O’Collins SJ, Australian Catholic University.

La fede cristiana nella Parola «divenuta carne» presuppone che la Parola o il Figlio di Dio esisteva personalmente prima dell’incarnazione. Sulla scena del mondo non è arrivata una nuova persona quando Gesù fu concepito e poi nacque. La figura storica di Gesù di Nazareth era e rimane personalmente identica alla Parola pre-incarnata. Come potrebbe esserci questa continuità tra l’infinita potenza e l’onniscienza della Parola di Dio e del neonato che si trova tra le braccia di Maria? Che cosa significa la sua dottrina della preesistenza? Una simile affermazione è veramente importante per la fede e la vita cristiane?

La fede cristiana sostiene che l’esistenza personale di Gesù Cristo – ma non la sua umanità creata – è quella di un soggetto divino che vive eternamente nell’unicità di Dio. Il suo essere una persona non ha avuto origine quando egli è diventato visibile e osservabile, quando la sua storia umana ha avuto inizio. Gesù non viene all’esistenza come una nuova persona intorno al I secolo a.C., nel periodo normalmente accettato per la sua nascita. Se noi ci chiediamo «chi era Gesù bambino?», allora la risposta non è: «Una nuova persona». Egli era ed è rimasto l’eterno Figlio di Dio oppure l’eterna Parola di Dio. Ma se noi ci chiediamo «che cos’era?», allora esiste una nuova e più “ampia” risposta. Egli era un essere umano così come era un essere divino.

Il prologo del Vangelo di Giovanni ha fatto ricorso alle possibilità offerte dal linguaggio per identificare e distinguere la personale esistenza del soggetto divino. Da una parte, la Parola viene da Colui che la pronuncia. Così Giovanni può dire: «La Parola era Dio». Dall’altra parte, la Parola è distinta da Colui che la riferisce: «La Parola era con Dio». Così, Cristo era ed è rimasto identificato con, ancora distinto da, il Dio che egli ha chiamato «Padre». Dio ha sempre pronunciato la Parola divina “in principio” e “dal principio”. La Parola «era Dio» e non è diventata “Dio”. Così, la Parola o Logos apre al senso di un’eterna e personale preesistenza del Figlio di Dio. Qui potremmo prendere in considerazione una dichiarazione laconica del primo Concilio di Nicea del 325 d.C.: «non c’è mai stato un tempo in cui Egli non era»; e lo stato: «Cristo è sempre esistito». Comunque, questo linguaggio potrebbe essere ingannevole. Attraverso la condivisione dell’attributo divino dell’eternità, Cristo esiste anche senza tempo, dato che la stessa eternità è senza tempo. Intendo dire che l’eternità e la vita eterna non devono essere ridotti ad un’infinita, “interminabile” esistenza nel tempo. L’eterno “adesso” dell’esistenza divina, che costituisce la preesistenza di Cristo, significa perfetta unione e semplicità, una pienezza immutabile della vita, senza un “prima” e un “dopo”, non avendo l’essere e non diventando l’essere.

Queste riflessioni suggeriscono anche alcuni rischi nell’uso dello stesso termine “preesistenza”. Per parlare della preesistenza di Cristo, dell’incarnazione e della creazione dell’universo (quando il tempo ebbe inizio), potrebbe essere errato implicare un “prima” e un “dopo” per parlare della sua esistenza personale e divina. L’aggiunta che il primo Concilio di Costantinopoli del 381 d.C. ha fatto al testo del Credo di Nicea, «nato dal Padre prima di tutti i secoli», potrebbe farci pensare erroneamente ad una successione nel tempo, come se il Figlio semplicemente precedeva o ha preceduto ogni cosa che, in seguito, ha cominciato ad esistere nel e con il tempo. Invece, la parola “preesistenza” significa che Cristo appartiene ad un ordine dell’essere diverso dal creato, diverso dalla dimensione temporale. La sua esistenza personale e divina trascende o va oltre le nostre normali categorie spazio-temporali. In questo senso, sarebbe più opportuno utilizzare termini come “trans-esistenza”, “meta-esistenza” o più semplicemente “esistenza eterna”. Niente di tutto ciò intende affermare che l’eternità e il tempo non hanno nulla a che fare con l’altro, oppure che sono del tutto estranei l’uno all’altro, anche al punto di escludersi reciprocamente. Se così fosse, il Dio eterno non avrebbe prodotto un mondo segnato dal tempo, un mondo del tempo. L’eternità va al di là del tempo, senza essere “a parte” dal tempo. L’eternità e il tempo possono essere considerati assieme. Essendo eterno, Dio è presente immediatamente e con forza in ogni momento.

Nell’incarnazione, questa presenza divina è andata così lontano che il Figlio di Dio, eternamente esistente, ha assunto la dimensione della temporalità o quella di un’esistenza umana nel tempo. Paolo di Tarso scrive del divino e preesistente Figlio di Dio non solo come di un essere «inviato» dal Padre (Rm 8,3; Galati 4,4), ma anche come colui che prende l’iniziativa di «diventare povero» per la nostra salvezza (2 Cor 8,9), «svuotando se stesso, assumendo la condizione di servo», e «divenendo simile agli uomini» (Fil 2,7). Il linguaggio dell’apostolo suggerisce l’impoverimento di un’auto-limitazione coinvolta nell’incarnazione.

La fede nel Figlio o nella Parola preesistente che viene, o che è inviata nel mondo, non manca di valori spirituali e teologici. Questa convinzione sottolinea fortemente l’amore divino per gli esseri umani e il loro mondo. Continuare ad inviare profeti, per così dire, non sarebbe costato nulla a Dio. Ma la venuta e la personale presenza del Figlio di Dio preesistente esprime in maniera univoca il desiderio divino di stare con noi, di condividere le nostre sofferenze e di liberarci dalla nostra situazione disperata. Qualunque cosa inferiore a questo potrebbe lasciarci domandare quanto sia importante per noi Dio. «Dio ha tanto amato il mondo che ha mandato il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16) è un’affermazione così convincente che nessuna dichiarazione “minore” potrebbe eguagliarla, come per esempio quella che recita: «Dio ha amato così il mondo da mandarci un altro profeta». Come diceva un messaggio tradizionale di Natale, «Dio si è preoccupato abbastanza da inviarci il meglio». Vista in questa prospettiva, la dottrina della preesistenza personale e eterna di Cristo contribuisce in modo determinante a tutta la potenza del messaggio dell’incarnazione.

Un incantevole omaggio liturgico alla preesistenza di Cristo si trova il 18 dicembre, il terzo giorno della Novena di Natale. L’antifona della preghiera serale condivide la fede in colui che è preesistente. Egli era attivamente impegnato nella storia d’Israele ed era personalmente presente come Signore (“Adonai”) molto tempo prima di entrare nel nostro mondo attraverso l’incarnazione: «O Signore e Guida di Israele, sei apparso a Mosè nel roveto ardente e hai dato a lui la legge sul Sinai, vieni e salvaci con la tua potenza». Un’antica benedizione ebraica dice: Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace» (Nm 6,24-26). Il piccolo bambino nelle braccia di Maria renderà vera questa benedizione. Il viso del Signore eterno splende su di noi. Noi siamo e saremo benedetti e custoditi, perché ora possiamo guardare la gloria del Figlio di Dio preesistente sul volto del bambino Gesù.

Tags: