Il Logos nei primi secoli dell’era cristiana

Lo speciale “Sui sentieri del Logos. Percorsi tra storia, filosofia e teologia delle religioni” è a cura di Gabriele Palasciano. Un testo di Manfred Hauke, Facoltà teologica di Lugano (Svizzera).

Il Logos nel dogma cristologico della Chiesa antica

Nella Chiesa antica, le basi bibliche della fede in Gesù Cristo vengono formulate più precisamente. Questo sviluppo dottrinale è causato dall’esigenza di difendere la fede contro le eresie, soprattutto al Concilio di Nicea del 325 d.C., che difende la divinità di Gesù contro il presbitero Ario. La riflessione cristologica utilizza anche il pensiero sul Logos nella cultura greca e nell’Ebraismo ellenistico. Gli elementi principali dello sviluppo cristologico sono preformati con particolare vigore nel Prologo di Giovanni: «Il Verbo (Logos) si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Qui si vede l’unità di soggetto, il Figlio eterno di Dio identificato col Logos, ma si colgono anche le due nature di Gesù Cristo, quella divina («il Logos era Dio»: Gv 1,1) e quella umana (la “carne” come parte dell’umanità sotto l’aspetto della debolezza, sottoposta poi alla morte in croce). Il dogma cristologico della Chiesa antica trova il suo apice nel Concilio di Calcedonia del 451 d.C.: Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, con anima razionale e corpo; le due nature non sono né separate tra di loro (contro Nestorio) né mescolate (contro i monofisiti), ma unite tra di loro nell’unica persona dell’unigenito Figlio di Dio e Logos.

I Padri sul Logos nella Sacra Scrittura

La rivelazione neotestamentaria e la sua esposizione patristica colgono l’ampia preparazione dell’Antico Testamento per ciò che riguarda il Logos. Si tiene conto già dei primi versetti della Bibbia: «all’inizio» (in greco en archê) Dio creò il cielo e la terra, quindi l’intero universo, con la sua Parola («Dio disse…»); lo «Spirito di Dio alleggiava sulle acque» (Gn 1,1-3). Alla luce della rivelazione in Gesù Cristo, inviato dal Padre celeste il quale manda, assieme al Figlio, lo Spirito Santo, i Padri della Chiesa potevano scoprire in questo brano una preparazione della fede nell’unico Dio in tre persone. Ireneo di Lione usa la metafora del Logos e del Pneuma come “mani” del Padre. Dio stesso “plasmò” l’uomo (cf. Gen 2,7) senza avere bisogno degli angeli perché aveva “le sue Mani”: «Da sempre, infatti, gli sono accanto il Verbo e la Sapienza, il Figlio e lo Spirito. Mediante loro e in loro ha creato tutte le cose, liberamente e spontaneamente, e a loro appunto parla dicendo: “Creiamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” (Gen 1,26), prendendo lui stesso da se stesso la sostanza delle cose che sono state fondate e il modello delle cose che sono state create e la forma delle cose che sono state ordinate». (Adversus haereses IV,20,1).

In questo brano, la Sapienza dell’Antico Testamento è vista in prospettiva della rivelazione dello Spirito Santo. La Sapienza quale espressione personificata dell’azione creativa di Dio poteva infatti preparare la manifestazione futura sia del Figlio che dello Spirito Santo. Lo vediamo ad esempio in questo brano: la divina sapienza è «artefice di tutte le cose […] in lei c’è uno spirito intelligente, santo […] che può tutto e tutto controlla, che penetra attraverso tutti gli spiriti […] è effluvio della potenza di Dio, emanazione genuina della gloria dell’Onnipotente […]. È riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e immagine della sua bontà. Sebbene unica, può tutto; pur rimanendo in se stessa, tutto rinnova e attraverso i secoli, passando nelle anime sante, prepara amici di Dio e profeti» (Sap 7,21-27).

La presentazione veterotestamentaria della Sapienza influenza già la presentazione di Gesù nei Vangeli sinottici e soprattutto il Prologo di Giovanni: analogamente alla Sapienza che mise la sua “tenda” in mezzo a noi (kataskénôsen: Sir 24,8 LXX), il Logos venne ad “abitare” in mezzo a noi (eskénôsen) (Gv 1,14). Giovanni non parla della Sapienza, ma del Verbo perché il genere femminino del termine greco sophía non era adeguato per un redentore maschio. Altri motivi potevano essere l’identificazione rabbinica della Sapienza con la Torah, oppure le speculazioni fantasiose dell’incipiente gnosticismo ebraizzante in cui la “Sapienza” assumeva un ruolo di spicco.

Il ruolo del Logos viene preparato, inoltre, dal primo racconto del Libro della Genesi sulla creazione del tempo tramite la Parola di Dio (Gen 1,1-2,4a) e da vari brani in cui il Verbo viene quasi personalizzato. Notiamo soltanto l’esempio forse più significativo. Parlando dell’intervento di Dio a favore del suo popolo schiavizzato in Egitto, il Libro della Sapienza afferma: «Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, la tua parola (Logos) onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale […] si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio […] portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile» (Sap 18,14ss). L’influsso del discorso veterotestamentario sulla Sapienza (quale riflesso della luce della divina gloria) si manifesta anche nel prologo della Lettera agli Ebrei. Nei tempi antichi, Dio ha parlato per mezzo dei profeti, ma poi «per mezzo del Figlio […] mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente» (Eb 1,1-3).

L’importanza di Cristo come Logos viene accolta, nella Chiesa antica, già in Ignazio d’Antiochia, uno dei Padri apostolici, storicamente vicino all’evangelista Giovanni. Secondo lui, i profeti hanno rivelato che esiste un unico Dio «che si è rivelato attraverso il suo Figlio Gesù Cristo il quale è il suo Logos provenuto dal silenzio» (In Magn. 8,2). Sia nel Vangelo di Giovanni che in Ignazio d’Antiochia, il Logos è di carattere divino. Questo fatto va sottolineato nei confronti della ricezione della filosofia greca nell’ebreo Filone di Alessandria, contemporaneo dell’apostolo Paolo. Per Filone, il Verbo è un essere intermedio tra Dio e l’uomo, con una funzione per la creazione del mondo. Mentre il Logos filonico non è né Dio né uomo, il Logos di Giovanni (e di Ignazio) è allo stesso momento Dio e (dopo l’incarnazione) uomo. In Gesù non incontriamo un essere “intermedio” fra Dio e il creato, ma il Figlio di Dio che si è fatto uomo.

La presentazione di Cristo Logos nel “dialogo interreligioso” di Giustino

La cristologia del Logos trova poi una realizzazione particolarmente importante in Giustino di Nablus, filosofo e martire nel II secolo. Egli dialoga sia con rappresentanti della cultura greco-romana (le due Apologie) sia della religione giudaica (Dialogo con l’ebreo Trifone). Nella sua Prima apologia del Cristianesimo, Giustino utilizza dei termini della filosofia stoica, trasformandoli, però, nella prospettiva della fede in Gesù Cristo. Gli stoici chiamavano “Logos” un principio metafisico che governa tutto il cosmo. Questo principio non era alcuna realtà personale e trascendente, bensì una specie di anima del mondo e portatore degli aspetti razionali dell’universo.

Per invitare gli ebrei alla fede in Cristo come Logos, Giustino ricorda ai suoi interlocutori soprattutto gli scritti dell’Antico Testamento sulla divina Sapienza che trovano un compimento nel Verbo che si fece carne. Per dialogare con i pagani, egli prende lo spunto dalla riflessione filosofica presente nello Stoicismo e nel Medio Platonismo sul Logos, confrontando la filosofia con la pienezza della razionalità nel Verbo eterno tramite cui fu creato l’intero universo. Il Logos intero si trova soltanto in Cristo (Seconda Apologia 10,3), ma tutto il genere umano partecipa in qualche maniera del Verbo divino che semina la conoscenza della verità (lógos spermatikós). Gli ebrei, comunque, partecipano al Logos in una maniera più forte dei pagani, ma la verità intera si trova soltanto nei cristiani che hanno accolto il Verbo incarnato (Prima Apologia 46,2.4; Seconda Apologia 8,3; 13,2-6). La presenza differenziata del Logos non porta, però, ad una visione ingenua: Giustino sottolinea fortemente l’azione degli spiriti cattivi nella religione pagana, ma valorizza il dialogo filosofico sulla base del buonsenso umano colto nella coscienza, come nell’esempio di Socrate (Prima Apologia 5). Questa preferenza della filosofia di fronte alla religione viene formulata più tardi espressamente da Agostino. La teologia mitica, che lavora con saghe sugli dei, e la teologia politica, che usa la religione come mezzo di potere per l’unità dello Stato, devono «cedere ai filosofi platonici che hanno chiamato il vero Dio origine delle cose, illuminatore della verità e donatore della beatitudine. A questi grandi uomini […] devono cedere anche gli altri filosofi i cui spiriti catturati nell’ambito corporale hanno soltanto indovinato delle origini materiali della natura» (De civitate Dei 8,3).

La chiarificazione definitiva del Concilio di Nicea e l’opera di Gregorio di Nazianzo

Il carattere non ancora maturo della dottrina sul Logos prima di Nicea si manifesta bene nella teologia di Origene. Da una parte il Figlio è un’ipostasi (persona) generata eternamente dal Padre, ma dall’altra parte il Figlio procede dalla volontà del Padre – ciò che rischia di affiancarlo alle creature. Il carattere divino, eterno e personale del Logos, Figlio consustanziale del divino Padre, viene chiarito al Concilio di Nicea. Ario, dipendente da una visione filosofica medio platonica sulla monade divina, riteneva impossibile il carattere divino del Logos e lo dichiarò una creatura sottoposta alla mutabilità e alle passioni (cf. Atanasio, C. Arian., or. 15). Per il Medio Platonismo, il Logos era una mediazione tra la monade divina e la molteplicità presente nell’universo; non poteva essere veramente di carattere divino. Gli ariani attribuivano gli affetti di Gesù non alla sua anima umana, bensì al Verbo preesistente. Non prendevano sul serio né la vera umanità né la vera divinità del Verbo incarnato. Professando Gesù «vero Dio da vero Dio», «consustanziale al Padre», i Padri del Concilio di Nicea tolgono ogni equivoco e preparano la riflessione matura dei Padri dal IV secolo in poi.

Come esempio del “periodo d’oro” dei Padri diamo uno sguardo a Gregorio di Nazianzo, uno dei grandi Padri cappadoci. Egli si trova di fronte alla duplice sfida dell’arianesimo (che separa il Logos dal Padre e dallo Spirito Santo) e del sabellianismo (che presenta le tre persone divine come un unico soggetto con tre manifestazioni “teatrali” diverse). Chi presenta il Logos come unica ipostasi divina, per paura di cadere altrimenti nel politeismo, professa soltanto dei nomi senza alcun contenuto specifico, quando parla di Padre e Spirito (così i sabelliani). Non si possono neanche separare le tre persone divine oppure togliere l’ordine tra di loro (così gli ariani). Bisogna professare sia l’unità di Dio che la Trinità nelle ipostasi oppure persone, le quali dispongono ognuna di una proprietà (cf. Oratio 20,6). L’unità dell’essenza divina va messa insieme alla divina “monarchia”: «La natura è una per i tre: Dio. Su ciò che riguarda, però, la loro unità: il Padre è colui dal quale provengono gli altri e verso il quale tornano, non per mescolarsi, ma così che siano uniti» (Oratio 42,15). Gregorio scopre il fatto che “Padre” (come “Figlio” e “Spirito Santo”) non è un nome per designare l’essenza o l’operazione, ma la relazione (schesis) (Oratio 29,16). Perciò la distinzione tra la tre persone divine consiste nelle relazioni di origine: il Padre ingenito è la fonte della vita trinitaria, mentre il Figlio è generato e lo Spirito Santo “proviene” dal Padre (Oratio 31,9).

La collocazione cosmica, antropologica e trinitaria del Logos in Agostino d’Ippona

Un ulteriore passo speculativo si trova nella grande opera di Agostino sulla Trinità. Egli coglie il concetto della relazione per distinguere le persone trinitarie, elabora il concetto della missione (del Figlio e dello Spirito Santo mandati dal Padre) e presenta un paragone tra la Trinità e l’anima umana creata ad immagine e somiglianza di Dio. Un primo ternario prende lo spunto dallo spirito (mens) umano il quale ama se stesso e conosce se stesso (Trin. IX,4,4). C’è un’unità di sostanza tra spirito, conoscenza e amore, che sono distinti per la relazione. La conoscenza «l’abbiamo come verbo presso di noi, un verbo che generiamo dicendolo al di dentro di noi e che nascendo non si separa da noi. Quando parliamo ad altri, restando il verbo a noi immanente, ricorriamo all’aiuto della parola o di un segno sensibile per provocare anche nell’anima di chi ascolta […] un qualche cosa di somigliante a ciò che permane nell’anima di chi parla […]. Questo verbo è concepito per amore» (Trin. IX,7,12-13). La conoscenza dello spirito è sua immagine e suo verbo (Trin. IX,11,16). Secondo Agostino, vi sono delle “vestigia” della Trinità (quindi anche del Logos) già nel mondo esteriore. Nella visione di un oggetto, per esempio, si distinguono l’oggetto visto, la visione stessa e l’attenzione rivolta a questa visione. Il corpo veduto “genera” la visione (Trin. XI,2,2-3). L’“immagine” della Trinità, invece, va trovata nello spirito capace di rivolgersi alle realtà eterne (Trin. XII,4,4; XIV,4,6). Agostino la descrive come ternario tra memoria, intelletto e volontà: «ciò che, presente nella memoria, informa lo sguardo di chi pensa; la forma che lo riproduce, come l’immagine impressa a partire dalla memoria; ciò che unisce invece l’uno all’altro: l’amore o la volontà» (Trin. XIV,6,8). Per essere uniti con Dio, non basta la somiglianza ontologica con la Trinità sulla base della creazione: «questa Trinità dello spirito non è immagine di Dio, perché lo spirito ricorda se stesso, si comprende e si ama, ma perché può anche ricordare, comprendere ed amare Colui dal quale è stato creato” (Trin. XIV,12,15). Il peccato di Adamo ha fatto perdere all’umanità la conformità dell’uomo con Dio, perdendo la grazia, ma Cristo rinnova l’immagine di Dio, partendo dal Battesimo. Colui «che di giorno in giorno si rinnova progredendo nella conoscenza di Dio e nella vera giustizia e santità, trasporta il suo amore dalle cose temporali alle cose eterne» (Trin. XIV,17,23).

«Vi è ancora tra il Verbo di Dio e il nostro questa somiglianza. Il nostro verbo può esistere, senza che si traduca in azione, ma non vi può essere azione, se non la preceda il verbo, come il Verbo di Dio ha potuto esistere senza che esistesse alcuna creatura, ma nessuna creatura potrebbe esistere se non per opera del Verbo per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose» (Trin. XV,11,20).

Attualità della dottrina patristica sul Logos

Gli spunti della dottrina patristica sul Logos possono far capire l’importanza del dialogo con gli ebrei e con tutte le persone pronte a riflettere sull’ultimo scopo della loro vita. Bisogna attingere al buonsenso umano nella filosofia aperta agli ultimi principi della realtà, una ricerca sviluppata nell’Antichità soprattutto dal Platonismo e dallo Stoicismo (non invece, per esempio, dall’orientamento materialistico di Democrito). Nei confronti degli ebrei, è importante vedere la dinamica degli scritti d’Israele verso la rivelazione del Messia, in cui si trovano anche la figura della Sapienza e il ruolo della Parola di Dio nella storia salvifica. Con la chiarificazione dogmatica degli antichi Concili, si scopre un patrimonio della Chiesa cattolica comune agli ortodossi e (di solito anche) ai protestanti. Inoltre, si apre un approfondimento notevole del termine biblico Logos: vi è il carattere personale, trascendente ed eterno del Figlio di Dio, ma allo stesso tempo la sua incidenza sull’intera creazione che partecipa in qualche maniera del Verbo divino. L’influsso del Logos è ostacolato dal peccato, ma rinforzato nei sacramenti della Chiesa che desidera comunicare a tutti gli uomini i benefici del Verbo incarnato, effondendo la “luce” di Cristo al mondo (Lumen gentium 1).

Il Logos non si riduce ad una razionalità filosofica, ma si presenta nei Padri della Chiesa come termine “comunicativo” con il divino Padre che genera il Figlio dall’eternità, e con lo Spirito Santo dell’amore, inviato dal Padre e dal Figlio per la salvezza umana. Il Logos ha un carattere razionale, legato alla conoscenza, ma non va separato dall’amore, legato in modo speciale con lo Spirito Santo nella teologia agostiniana. L’immagine trinitaria di Dio è intrinsecamente razionale (pure nel mistero che supera l’intelligenza umana) e allo stesso momento amorevole. Intelletto e carità vanno a pari passo, provenendo entrambi dall’eterna sorgente del divino Padre. Qui si possono indovinare le fondamenta più profonde possibili della convivenza umana nel Verbo che costruì la sua “tenda” in mezzo a noi (cf. Gv 1,14).

Speciale “Sui sentieri del Logos”:

Il Logos nei primi secoli dell’era cristiana
Il Logos, fra pensiero greco e cristiano
La provocazione del Logos cristiano

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