L’annunciazione e i suoi simboli

da Il Sole 24 Ore – 15 dicembre 2024 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Card. Ravasi parte dalla celebrazione della quarta domenica di Avvento per parlare poi dell’episodio dell’Annunciazione. Inoltre esplora la connessione tra questo episodio e il Natale, oltre alle sue rappresentazioni nella storia dell’arte e alle interpretazioni simboliche e letterarie.

Il cattolico praticante che parteciperà alla liturgia di questa domenica – che nel calendario è rubricata come “quarta di Avvento” – sentirà proclamare una pagina celebre del Vangelo di Luca (1,26-38) che reca il titolo tradizionale di “Annunciazione dell’angelo a Maria”. È la radice genetica del Natale che tra poco celebreremo perché alla ragazza di Nazaret – che reca il nome dell’antica sorella di Mosè, la guida dell’esodo di Israele dall’Egitto – fidanzata di un certo Giuseppe, viene annunciato a sorpresa che «lo Spirito Santo scenderà su di lei…, concepirà un figlio, lo darà alla luce e lo chiamerà Gesù».

Se la data convenzionale della nascita di quel bambino è stata fissata il 25 dicembre, è stato spontaneo ricorrere a nove mesi prima, al 25 marzo, per collocare quell’«Annunciazione». Un evento che ha trionfato nella storia dell’arte in mille e mille iconografie, distribuite nei secoli con le opere dei maggiori artisti. È interessante notare che nel Medio Evo per alcune città toscane il capodanno coincideva proprio col 25 marzo. Ma anche nei nostri tempi secolarizzati quel giorno, destinato non solo a rivoluzionare la vita della giovane Maria ma l’intera storia dell’Occidente, si affaccia in forme inedite e fin provocatorie: è di quest’anno il film Vangelo secondo Maria, di Paolo Zucca, tratto dall’omonimo romanzo di Barbara Alberti del 1978, riedito ora da Rizzoli. Spontaneo è risalire a un film noto ma ugualmente provocatorio, Je vous salue Marie che Jean-Luc Godard portò sullo schermo nel 1985.

In maniera un po’ inattesa vorremmo estrarre da quella scena, che si era svolta in una modesta abitazione di un villaggio della Galilea, un filo narrativo apocrifo che ha, però, stimolato la storia dell’arte. Il suggerimento ci è venuto da un articolo “filologico” di un esegeta brasiliano, Mattia Seu, apparso su una pubblicazione scientifica, la «Rivista biblica», in uno dei suoi ultimi numeri (ottobre-dicembre 2023). Il titolo era un po’ criptico, Il lungo velo da Davide a Maria, ma una delle prime sottotitolature del testo era invece sbarazzina: «Cosa stava facendo Maria all’arrivo di Gabriele?», ossia l’angelo annunziatore. Sappiamo che s. Ambrogio nel suo trattato De virginibus non aveva dubbi: Maria era senza altra compagnia se non quella di «tanti libri, tanti arcangeli, tanti profeti», forse un modo allusivo per evocare le Sacre Scritture che sono appunto una “biblioteca” di 73 volumi e volumetti.

Forse, in modo indipendente dal famoso Padre della Chiesa, l’arte non ha avuto esitazione e, pur cadendo nell’anacronismo, ha ripetutamente raffigurato l’angelo che sorprende Maria mentre sta leggendo un libro aperto davanti a sé: la lista sarebbe lunga con figure come Leonardo, Botticelli, Pinturicchio e così via. Le Annunciazioni più riprodotte sono quelle del Beato Angelico. Scegliamo solo la sua tempera su tavola di 175×180 cm custodita nel Museo Diocesano di Cortona e databile attorno al 1430-33, forse meno nota del parallelo affresco del convento di San Marco a Firenze. All’irrompere di Gabriele, Maria incrocia le braccia e lascia appoggiato sulla sua gamba destra il libro aperto che stava leggendo.

Il simbolismo è evidente: Maria è la credente per eccellenza che scopre nelle profezie bibliche l’annuncio della sua maternità straordinaria e la figura messianica del suo figlio. Non si esclude, però, che nella convinzione comune si rimandasse anche all’immagine di Maria orante e quello fosse il suo libro delle preghiere. Ma a questo punto è necessario introdurre un nuovo percorso interpretativo dell’Annunciazione. Esso è sviluppato a livello letterario e storico-critico proprio dal saggio sopra citato di Seu, il cui sottotitolo generale suona tecnicamente così: «Un filo rosso tra il Protovangelo di Giacomo e il Targum Jonathan».

In questo caso, prima di spiegarne il senso, ricorriamo ancora all’iconografia. Entriamo idealmente nella basilica romana di Santa Maria Maggiore e fissiamo lo sguardo sui mosaici dell’arco trionfale. Siamo nel V secolo e il papa Sisto III (432-440) è il committente di quel ciclo musivo che comprende anche la scena dell’Annunciazione. Maria, assisa su un trono, stringe un fuso sotto il braccio destro, mentre con le mani fila una matassa purpurea, deposta in un cesto a terra. L’angelo Gabriele la incontra, quindi, nella quotidianità del suo lavoro.

Come nel caso precedente, si cela però un simbolismo ben più complesso che può essere sciolto ricorrendo a uno dei più famosi apocrifi mariani, il Protovangelo di Giacomo (II secolo), fondamentale – accanto ai Vangeli canonici – per decifrare vari soggetti artistici, come la Natività della Vergine, i suoi due genitori Anna e Gioacchino e soprattutto la “presentazione” di Maria bambina al tempio. Ora, per confezionare il velo che celava nel Tempio di Gerusalemme il Santo dei santi – ossia la cella sacra della presenza divina, a qualsiasi occhio umano (tranne il Sommo Sacerdote, una sola volta l’anno in occasione della solennità penitenziale del Kippur) – erano state selezionate alcune vergini discendenti dalla tribù di Davide.

Tra costoro fu scelta anche la ragazza Maria e, secondo quel Protovangelo, l’angelo Gabriele sarebbe apparso a lei proprio mentre filava «la porpora genuina e lo scarlatto» che – con altri tessuti secondari – erano la base del velo sacro. Se il Vangelo di Matteo esalta la discendenza davidica di Giuseppe, il padre legale di Gesù, l’apocrifo assegnerebbe anche a Maria questa matrice genetica. E, secondo la tradizione giudaica attestata dal cosiddetto Targum Jonathan (IV-V secolo su fonti più antiche), fin dalle origini era toccato proprio alla famiglia davidica di tessere il velo del primo Tempio gerosolimitano, eretto dal figlio di Davide, il re Salomone. Ancora una volta si intuisce quanto l’arte – come suggeriva Chagall – abbia attinto all’«alfabeto colorato» di simboli, immagini e personaggi presenti in quel «grande codice» che è stata la Bibbia con la sua tradizione derivata.