San Girolamo ci spiega San Matteo

da Il Sole 24 Ore – 12 febbraio 2023 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi propone un’analisi del Vangelo di Matteo fatta da San Girolamo.

Febbricitante, nella sua mente assopita era balenato un sogno. Si trovava davanti al Giudice divino: «Interrogato circa la mia condizione, risposi di essere cristiano. Ma colui che presiedeva quell’assise mi investì: Tu mentisci! Tu sei ciceroniano, non cristiano!». Flagellato e umiliato, l’imputato aveva optato per una decisione radicale: «Signore, se ancora avrò in mano libri mondani e se li leggerò, è come se ti avessi rinnegato!». Era la quaresima del 375 e questa testimonianza autobiografica è del rubesto ma geniale san Girolamo, grande traduttore della Bibbia in latino, uomo di straordinaria cultura, autore di un’imponente bibliografia.

A essa attingiamo per proporre un commento esegetico offerto ora in un’esemplare edizione critica. Si tratta dell’analisi del Vangelo di Matteo, articolata in quattro libri, con testo latino a fronte e un ricco apparato di note. Il famoso Padre della Chiesa amava introdurre nei suoi scritti – come nell’esempio sopra citato desunto dalla sua Epistola 22 alla discepola Eustochio, una nobildonna romana che, con la madre, l’aveva seguito nell’aspra solitudine delle grotte di Betlemme – sprazzi di autobiografia.

In questo caso è il contesto della nascita del commentario. Era l’anno 398, e Girolamo da tre mesi era allettato con febbre e debilitato, tanto da faticare a stare in piedi. Ma un amico di Cremona, Eusebio, un avvocato divenuto monaco proprio nel cenobio di Betlemme, lo aveva implorato di scrivere un testo sul Vangelo di Matteo in tempi brevi perché stava per imbarcarsi, così da rientrare a Roma con uno scritto del maestro. Tutto questo è detto con abbondanza di particolari proprio nella prefazione all’opera, nella quale Girolamo si rivela consapevole anche della vasta bibliografia matteana allora già esistente.

Ecco uno squarcio della nota personale che contiene una benevola protesta verso l’amico per aver «chiesto in pochi giorni un’opera che richiede anni». Scrive, dunque, il Padre della Chiesa: «Tu mi costringi in due settimane, con la Pasqua ormai prossima e i venti che soffiano a ordinare che gli stenografi scrivano, che le schede vengano redatte, corrette e disposte in bella copia, nonostante tu sappia che sono stato così malato per tre mesi che a stento adesso comincio a camminare e non posso conciliare la grandezza della fatica con la ristrettezza del tempo».

Il testo risente stilisticamente della brevità della redazione, elaborata con la speranza di uno scritto futuro maggiore; eppure l’esegesi è già approfondita, nonostante i tempi ristretti della stesura. Suggestiva è anche l’interlocuzione che talora viene intessuta con l’eventuale lettore, così come lo è la “teatralizzazione” di alcune scene evangeliche con il coinvolgimento attoriale di Gesù e dei discepoli. L’acribia raffinata del curatore, Daniela Scardia, identifica con accuratezza l’impianto tematico, la metodologia esegetica, i tratti caratteristici, isolando persino gli stilemi originali del Padre della Chiesa nei confronti della prassi classica e accompagnando con le note in calce il fluire del testo con le sue asperità, gli ammiccamenti, le citazioni.

Il taglio ermeneutico è quello secundum litteram, potando le tradizionali ramificazioni allegoriche, senza però cadere in un letteralismo rigido e tenendo conto della policromia delle interpretazioni. Il tutto organizzato in un approccio guidato dall’ordo pulcherrimus, ossia dal coordinamento dei versetti nel processo del discorso globale matteano. Girolamo non si spoglia del manto rosso acceso della polemica che gli è connaturale, con bersagli non solo ereticali ma anche esterni alla cristianità, e rivela alcune opzioni tematiche a lui care che individua o appoggia sul testo evangelico.

Così, ad esempio, si apre il ventaglio degli asserti teologici capitali della dottrina trinitaria e cristologica, l’ermeneutica dell’Antico alla luce del Nuovo Testamento, la concezione antropologica fondata sul libero arbitrio, la scontata polemica con il giudaismo che si affiderebbe a un’osservanza letterale delle Scritture senza penetrarne l’anima e che, perciò, non comprenderebbe la novità di Gesù processandolo e condannandolo. Per contrasto, viene esaltata l’apertura universale, tipizzata in Pilato e nel centurione, secondo una prospettiva che effettivamente segna anche lo stesso Vangelo di Matteo.

L’orizzonte è quello della storia della salvezza nella quale i cristiani non devono automaticamente sentirsi immuni dal giudizio divino: è, infatti, la coerenza morale della loro fede con le opere la cartina di tornasole dell’autenticità dell’essere discepoli di Cristo e dell’essere giustificati nell’assise giudiziaria divina finale. Evochiamo anche due temi originali. Da un lato, viene alonata di luce la figura dell’apostolo Pietro, nonostante il tradimento e certe incomprensioni del suo Signore, perché «benché sbagli nella sostanza, tuttavia non sbaglia nel sentimento». Si ha qui il riflesso della scelta del papa Damaso, caro a Girolamo, di affermare il primato di Pietro, dichiarato dal Vangelo di Matteo (16,13-20). D’altro lato, sembrerebbe che una delle chiavi di lettura del commento sia la pazienza, soprattutto nel senso etimologico di «patire», la cui manifestazione suprema è appunto nella «passione» di Cristo. Una virtù che deve guidare anche il cristiano nel percorso spesso accidentato della sua esistenza.