Se il cristiano non parla con l’arabo

da Il Sole 24 Ore – 24 luglio 2022 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi affronta il tema della convivenza tra le diverse culture.

Quando si pensa all’Andalusia, nella memoria di tutti s’affaccia lo splendore assoluto di città come Siviglia, Cordoba, Granada che affascinano con i loro monumenti ma anche con la loro storia straordinaria. Tuttavia pochi sanno che il toponimo di questa regione della Spagna meridionale deriva da una vera e propria rasura di quella terra operata dagli invasori Vandali: è da loro che nacque il termine Vandalicia. Quando nel 711 passò su quell’area la nuova ondata araba, il vocabolo si trasformò nell’odierna «Andalusia» che i conquistatori musulmani assegnarono, però, all’intera Spagna fino alla «reconquista» cristiana del 1492.

Ora, la nota esperienza di convivenza e di interculturalità – più complessa di quanto vuole una certa vulgata idilliaca – è assunta a emblema per una riflessione sul mai placato confronto-scontro-incontro delle varie fedi tra loro e con la stessa modernità. A svilupparla è una figura abbastanza originale che su queste pagine abbiamo già avuto occasione di presentare per un suo libero commento al biglietto che san Paolo aveva indirizzato all’amico Filemone, da cui era fuggito uno schiavo di nome Onesimo rifugiatosi proprio presso l’Apostolo. Il tema sotteso era evidente già nel titolo di quel piccolo saggio, Sulla soglia della coscienza. La libertà del cristiano secondo Paolo (Emi 2020).

Stiamo parlando del domenicano parigino André Candiard, un quarantenne che ora vive al Cairo intrecciando ricerca e dialogo interreligioso, ma avendo alle spalle una differente carriera di studi (a «Sciences Po») e un impegno politico. Il suo nuovo scritto che pone in contrappunto dialettico tolleranza e dialogo si avvale della premessa di un noto politologo che molti hanno imparato a conoscere e a stimare attraverso la rivista «Reset», Giancarlo Bosetti. Si tratta di una prefazione capace di centrare e illustrare con rigore e finezza il cuore del saggio di Candiard che parte appunto da un incrocio tra il passato storico sopra evocato e il presente.

Da un lato, infatti, c’è il modello «Andalusia», incarnato e testimoniato anche attraverso personalità di grande rilievo come il poeta Ibn Hazm (X sec.) e Averroè (XII sec.) per la parte araba e con un sorprendente Raimondo Lullo (XIII sec.), autore cristiano di un «dibattito religioso di gran classe», come annota Candiard. D’altro lato, c’è invece l’incessante interrogativo attuale di fronte a un islam degenerato che viene immerso da fanatici nel fango del fondamentalismo, generando lo sgomento e lo sdegno del mondo occidentale secolarizzato contemporaneo. È su quest’ultimo orizzonte che il testo punta il suo obiettivo, tenendo però sempre ben teso il fondale storico a cui alludevamo, usato appunto come emblema.

Le coordinate adottate dalla modernità socio-culturale, al di là dei due estremi di un (raro) irenismo a tutti i costi e di un parallelo fondamentalismo bellicoso, hanno optato per una fluida e incolore via mediana che Candiard sviluppa nella sua riflessione con acutezza e che Bosetti riassume in modo incisivo: «far convivere le differenze religiose neutralizzandole dal punto di vista dello Stato, privatizzandole, imponendo loro, quando ci è riuscito, di accendere conflitti nella sfera pubblica, quasi allontanando la ricerca razionale della fede e, in un certo senso, depotenziando le pretese di verità di ciascuna religione».

In questa atmosfera, nella società e nella cultura odierna soprattutto occidentale, si fa strada una sorta di uniformità incolore e insapore che, sotto l’ombrello di una conclamata secolarizzazione (che non è la necessaria «secolarità», antidoto contro ogni cesaropapismo), si alimenta solo di una visione «debole». Essa si caratterizza per un’omogeneità elaborata su un minimo comun denominatore e basata su una tolleranza che esige il dissolvimento nebbioso delle legittime identità religiose col loro bagaglio ereditario culturale, spirituale e teologico.

Curiosamente Candiard, tra i molti percorsi che suggerisce – durante la sua riflessione su un più autentico (e non vagamente ecumenico e «laico») confronto tra le fedi – c’è un particolare minore destinato appunto a illustrare quella temperie asettica contemporanea sopra indicata. Scrive: «In Francia come in Italia resta il fatto che i giornali non pubblicano più, e non da oggi, interventi di carattere teologico. Non si può dar loro torto: i lettori non capirebbero, probabilmente non più dei loro giornalisti, di cosa si tratta». In verità, la pagina che il lettore ha ora tra le mani è la smentita di questa rilevazione. Si tratta, però, di un dato quasi unico, vera mosca bianca, in un contesto in cui si confondono come religiose e «teologiche» le pur importanti notizie dei vaticanisti sulle scelte ecclesiali, sulla Curia romana o sugli scandali della pedofilia.

Lasciamo in finale ancora la parola a Candiard che spreme il succo genuino, e libero da scorie, dell’esperienza dell’Andalusia, superando quel culturalmente corretto che cancella ogni segno e messaggio religioso per una neutralità della società: non dobbiamo, invece, «rinunciare mai, tra gli appagamenti del comfort e della tecnica, alle nostre aspirazioni all’infinito e alla verità; e a non dimenticare mai che, su questa via, abbiamo un solo strumento, imperfetto ma indispensabile: la nostra sete di capire».