Per riconoscere il Cristo risorto

da Il Sole 24 Ore – 17 aprile 2022 – di Gianfranco Ravasi.

In questi giorni pasquali il Cardinal Ravasi ci parla di un sorprendente fenomeno evangelico, quello delle «apparizioni» del Risorto.

«All’inizio degli anni Trenta i sacerdoti ortodossi venivano deportati in massa in Siberia. Immaginiamoci la scena: su un vagone merci stanno caricando una colonna di preti. Tra loro molti sono vecchi e fanno fatica a inerpicarsi per la ripida scaletta. Un soldato della scorta guarda e vede che nell’apertura del vagone c’è Cristo che aiuta i prigionieri a salire. Vedendo il Salvatore, invisibile agli stessi preti, il soldato getta il fucile a terra, cade in ginocchio e crede in Dio. I martiri andavano incontro alla loro morte e il Signore li aiutava».

Così aveva risposto Andrej Sinjavskij, figura mitica della dissidenza durante il regime sovietico, a un giornalista italiano che lo intervistava sul significato della risurrezione di Cristo. La testimonianza venne poi raccolta nel 1996 in un volumetto dell’editrice vicentina La Locusta sotto il titolo Una parabola di Pasqua. Il dato significativo fu sottolineato proprio dall’intervistatore: «Perché Cristo è apparso a quel soldato e non ai preti?». Il tema ci conduce spontaneamente in questi giorni pasquali a un sorprendente fenomeno evangelico, quello delle «apparizioni» del Risorto, termine un po’ infelice perché spesso alonato nel linguaggio comune di colori preternormali o magici. In realtà nei Vangeli si usano solo i verbi «vedere», «riconoscere», «manifestarsi».

Si tratta, dunque, di incontri talora segnati da un elemento sconcertante: alcuni discepoli non riconoscono nel Cristo risorto il rabbì che avevano ascoltato, con cui avevano camminato e persino pranzato, di cui avevano ammirato i gesti straordinari. Sono come i sacerdoti ortodossi che non scoprono nella persona che sostiene il loro braccio la figura del Signore che avevano celebrato e predicato. Paradossale nel Vangelo di Giovanni (c. 20) il caso di Maria Maddalena che scambia il Risorto col custode del giardino cemeteriale ove era stata deposta la salma di Gesù. Solo all’udire la voce che la interpella, lo riconosce.

Noi ci soffermeremo su un altro caso, affidato alla penna raffinata e vivace di Luca, il terzo evangelista, nel c. 24 della sua opera. È la scena drammatica in due atti che vede come protagonisti due discepoli, un certo Cleopa e un altro anonimo. Il primo movimento del racconto vede i due in cammino da Gerusalemme verso un villaggio di nome Emmaus, situato a «sessanta stadi» dalla città santa, in pratica undici chilometri, variamente identificato dagli archeologi. I due procedono tristemente, rientrando probabilmente alla loro residenza, lasciando alle spalle il sogno di un Messia liberatore la cui vicenda è ormai suggellata da una tomba dopo una terribile esecuzione capitale. La frase che si scambieranno è velata di una nostalgia delusa: «Speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele».

All’improvviso odono dei passi di un altro viandante che cerca di raggiungerli e che intesse con loro un dialogo proprio sull’evento accaduto a Gerusalemme. Egli cerca di interpretarlo e giustificarlo secondo un progetto superiore ricorrendo alle Scritture Sacre ebraiche. Sono parole che impressionano i due interlocutori che non si sono accorti di essere ormai giunti al loro villaggio, davanti alle loro case. Ed è qui che si svolge il secondo atto, il più intenso, mentre cala il crepuscolo. L’invito all’ospite è semplice: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto».

Il viandante ignoto accetta l’ospitalità. Ci si siede a mensa e qui bisogna lasciare la voce a Luca: «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero». È necessario ricordare che «spezzare il pane» nel linguaggio cristiano delle origini era la definizione dell’eucaristia, la presenza di Cristo nei segni del pane e del vino. Su tutta la narrazione Luca ha steso un velo interpretativo: nella liturgia si leggono le Scritture (primo atto) e ci si ciba del pane e del vino eucaristico. Questo secondo atto è il tempo e il luogo – come era accaduto a Emmaus – per «riconoscere» il Cristo sempre vivente.

L’evento pasquale incide, sì, nella storia come attestano la tomba vuota e le donne all’alba di Pasqua, ma nella sua sostanza è soprannaturale e trascendente. Per avere il «riconoscimento» del Cristo risorto non basta averne avuto una precedente esperienza storica, vivendo con lui in Galilea e in Giudea, ascoltandolo nelle piazze o cenando con lui. È necessario un canale di conoscenza e di comprensione superiore, quello della fede, che rende l’«apparizione» un incontro personale efficace. Come cantava Gertrud von le Fort (1876-1971): «Tu entri nel cuore della nostra solitudine / per dischiuderla come una porta spalancata… / Siamo un solo corpo e un solo sangue».

All’inizio abbiamo evocato la parabola di Siniavskij; concludiamo, invece, con un’immagine altissima della cena di Emmaus. Siamo nel 1601-02 e Caravaggio dipinge un olio su tela (cm 141×196,2) che ora è esposto alla National Gallery di Londra. Il tratto iconografico innovativo è nel Cristo imberbe, col braccio sinistro e la mano sospesa sul pane, deposto su una mensa arricchita di altre vivande, come la canestra con la melagrana, i pomi, l’uva, con un pollo arrostito e con la presenza di un locandiere o servitore. Commenta Mia Cinotti, una delle maggiori interpreti del pittore che ho avuto la fortuna di conoscere: «L’Emmaus è un quadro rivoluzionario, non tanto per l’introduzione del Cristo imberbe, quanto per la concezione pittorica e soprattutto per la soluzione spaziale… Gli elementi portanti di questa concezione sono le forme vigorosamente scorciate e la mimica violenta dei gesti: nella mano a scorcio quasi frontale del Cristo e nelle braccia del discepolo aperte quasi a perpendicolo sul fondo».

Ma a chi vuole ritrovare la stessa cena di Emmaus affidata ancora al pennello di Caravaggio può più facilmente accedere alla Pinacoteca di Brera ove è esposto dal 1939 – in seguito a una donazione degli Amici di Brera – un olio su tela (cm 141×175) che reinterpreta la scena evangelica in modo meno innovativo ma pur sempre originale. Malgrado l’aggiunta di una domestica, gli elementi sono semplificati, i gesti trattenuti, la pittura è spoglia ed essenziale. Eppure riappaiono la natura morta, i contrasti delle luci e delle oscurità, si rappresenta uno dei due discepoli di spalle quasi senza volto, l’atmosfera è intensa col gesto benedicente di Cristo. Come annotava ancora Mia Cinotti, «il passaggio alla meditazione spirituale sull’oggetto non avviene a danno della pittura, ma nella pittura».