Plinio davanti ai “Crestiani”

da Il Sole 24 Ore – 22 gennaio 2023 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi racconta l’incontro di Plinio il Giovane con il cristianesimo.

La titolatura del saggio che stiamo per presentare sembra scoraggiare le due possibili categorie antitetiche di lettori. Da un lato, c’è un anodino Il cristianesimo come forma di vita, di taglio adatto a una lettura più spirituale. D’altro lato, il sottotitolo è così «filologico» da supporre un pubblico ristretto di specialisti: I primi seguaci di Gesù in Ponto e in Bitinia. Perché allora segnaliamo quest’opera di un docente dell’Università Pontificia di Salamanca? La suggeriamo perché offre un’analisi su due documenti molto suggestivi e fin sorprendenti che si affacciano sul cristianesimo della seconda generazione (70-110 d.C.).

Partiamo dal primo documento, una carta imperiale romana, che contiene la menzione articolata più antica del cristianesimo. Siamo attorno al 110-112, quindi una decina d’anni prima dell’evocazione dei Crestiani e di Cresto da parte degli Annali di Tacito (XV, 44) o di Svetonio nella sua biografia dell’imperatore Claudio (n. 25). Plinio il Giovane, nipote del naturalista comasco Plinio il Vecchio (del quale descriverà la tragica fine nell’eruzione del Vesuvio dell’agosto 79), è governatore nella provincia del Ponto e della Bitinia (attuale Turchia nordoccidentale). Nella gestione del potere si trova tra le mani la patata bollente di una setta sconcertante che si riferisce a Cristo e che è oggetto di denunce anonime.

L’alto funzionario confessa di «non aver mai partecipato a istruttorie sui Cristiani e di non sapere fino a che punto si punisca o si indaghi». Perciò, prende pergamena e calamo e scrive una epistola al suo supremo referente, l’imperatore Traiano. L’analisi che lo studioso spagnolo Santiago Guijarro Oporto conduce sul testo è minuziosa perché essa rivela un importante spaccato della fede e della vita dei Cristiani, visti da un occhio esterno e oggetto di una curiosità vivace.

Secondo il governatore Plinio, i membri di questa comunità – esemplari per il coraggio («caparbietà e inflessibile ostinazione») di affrontare persino la morte pur di non tradire la loro fede nell’apostasia per il culto imperiale – avevano «l’abitudine di riunirsi in un giorno stabilito [la domenica] prima dell’alba e di cantare fra loro alternatamente un inno a Cristo, come a un dio, e di impegnarsi con giuramento, non a qualche delitto, ma a non commettere furti, ruberie, adultèri, a non mancare alla promessa, e a non negare, se chiamati, il deposito. Compiuti questi riti, avevano l’abitudine di riunirsi di nuovo per prendere del cibo comune e innocente».

È visibile in filigrana – accanto al giudizio sbrigativo di considerarla come «una superstizione inopportuna e smodata» – una sorta di stupore per lo stile di vita di questa comunità e l’imbarazzo nel doverli trascinare in giudizio. Si intuisce nella descrizione un rimando alla liturgia, alla sua innologia (antifonale o responsoriale) e soprattutto al banchetto comunitario, ossia l’eucaristia. Ma ciò che colpisce Plinio è la dimensione etica esemplare ai suoi occhi di pagano. La risposta di Traiano ribadisce la norma generale, invitando a rigettare le denunce anonime, a procedere nei confronti di coloro che sono colpevoli di ostinazione nella loro fede, e ad assolvere chi accetta di passare al culto imperiale.

A questo punto mettiamo sul tappeto il secondo documento, questa volta cristiano, cioè la Prima Lettera di Pietro, che da «Babilonia» (forse Roma) si rivolge proprio alle comunità in diaspora nel Ponto e nella Bitinia. L’esegeta di Salamanca identifica il cuore dello scritto petrino non tanto nell’insegnamento dottrinale quanto piuttosto nell’impegno parenetico-esistenziale, cioè nel «modo di vita che i cristiani devono adottare come conseguenza delle loro credenze e dei riti praticati». La sua lettura testuale sostenuta da una solida competenza storico-culturale, si tramuta nell’affresco di un’epoca e soprattutto di una comunità che si sente straniera e pellegrina (paroikía, «fuori casa», vocabolo che ha generato il nostro termine «parrocchia») nel mondo in cui è incastonata (1,17; 2,11).

Per questo è anche sottoposta a persecuzioni, ma «se uno soffre come cristiano, non se ne deve vergognare e invece deve glorificare Dio per questo nome» (4,16). Anzi, la Chiesa conserva intatto l’anelito al dialogo con l’orizzonte pagano, pronta «sempre a rispondere a chiunque le domandi ragione della sua speranza, ma con dolcezza, rispetto e coscienza limpida» (3,15-16). Il dittico che Guijarro Oporto propone, appaiando la voce di Plinio, il politico romano, a quella di Pietro, l’apostolo cristiano, diventa così non solo una rappresentazione della dialettica tra Impero e Chiesa, tra due culture, ma anche un paradigma per le attuali coordinate storico-sociali.

Alla fine, perciò, i due titoli antitetici perdono le loro connotazioni «repellenti» e mostrano il duplice valore di ricerca filologico-esegetica e religiosa. A questo saggio alleghiamo un volumetto che, sotto un titolo sbarazzino, un teologo croato evangelico, Miroslav Volf, ha dedicato alla stessa Prima Lettera di Pietro. La questione chiave che egli isola in quello scritto è l’invito a respingere la tentazione di uno scontro hard di stampo fondamentalistico con la società e la cultura esterna e a imboccare la via soft dell’incontro, pur nella fedeltà coerente alla propria identità cristiana.