L’homo faber e la teologia

da Il Sole 24 Ore – 4 maggio 2025 – di Gianfranco Ravasi.

In questo fine settimana si celebra il Giubileo dei lavoratori al quale subentrerà, subito dopo, quello degli imprenditori. La data è scelta in connessione col 1° maggio che non è solo la festa del lavoro ma è anche la memoria liturgica di s. Giuseppe lavoratore, il padre legale di Gesù. Costui non si vergognava di essere additato nel suo villaggio di Nazaret come «il figlio del falegname» (Matteo 13,55), anzi, di essere lui stesso considerato un «falegname» (Marco 6,3).

Interessante è il termine greco usato dai Vangeli per definire questa professione: tékton, che di solito è tradotto appunto come “falegname” o, meno bene, “carpentiere”. Il vocabolo è stato studiato in tutte le sue applicazioni – nel contesto modesto di un villaggio come Nazaret che allora registrava una popolazione di circa 2000 persone – solo da Paul H. Furley in un lontano articolo del 1955, pubblicato nella rivista esegetica americana The Catholic Biblical Quarterly. Egli, oltre a considerarlo come un lavoro artigianale familiare che poteva comprendere anche altre committenze (donde la resa “carpentiere”), sottolineava che esso collocava la famiglia di Gesù in una classe sociale semplice anche se non poverissima.

Si trattava, quindi, di un mondo operaio che richiedeva, però, una certa competenza e preparazione tecnica che Cristo ebbe occasione di apprendere dal padre in quei lunghi anni di vita “nascosta”, prima che si affacciasse come predicatore ambulante nella sua regione, la Galilea, e iniziasse il breve (si va dai 2 ai 3 anni, secondo i diversi computi) ministero pubblico descritto dai Vangeli e destinato ad approdare anche negli altri territori della Palestina di allora, la Samaria e la Giudea.

Il tema del lavoro, per altro, lo accompagnò anche in quegli anni proprio nel suo insegnamento in parabole. In esse entrano in scena i contadini che seminano, i vignaioli stabili e i precari, i pescatori, i pastori, le casalinghe ma anche gli amministratori corrotti, i benestanti delle alte classi votati all’accumulo capitalistico (si legga Luca 12,13-21), i magistrati e i politici. D’altronde, è noto che l’antropologia biblica comprende l’homo faber fin dalle prime pagine sacre: nella Genesi l’uomo è collocato sulla terra per «coltivarla e custodirla» (2,15), e si ha la consapevolezza che si tratta spesso di un’impresa non sempre esaltante, tant’è vero che si ricorda «il sudore del volto per mangiare il pane», lavorando un suolo arduo da coltivare «che produce spine e cardi» (3,17-19).

Sul profilo teologico-morale del lavoro umano non mancano studi soprattutto in epoca recente quando le stesse encicliche papali – come la Rerum novarum di Leone XIII (1891), la Quadragesimo Anno di Pio X (1931), la Populorum progressio di Paolo VI (1967), la Laborem exercens di Giovanni Paolo II (1981) e la Laudato si’ di Francesco (2015) – hanno posto sul tavolo la complessità della questione, soprattutto nei suoi risvolti etico-sociali. Alcuni teologi hanno puntato su aspetti specifici religiosi come il contributo che l’operare umano offre all’instaurazione del “regno di Dio”, cioè di un progetto diverso di giustizia, teso verso l’escatologia di una “terra nuova” (Marie-Dominique Chenu e Karel Vladimir Truhlar).

Tra i tanti saggi sul tema desideriamo segnalare un testo recente che potrà risultare di interesse anche per l’intero orizzonte delle ricerche socio-economiche generali in connessione con le nuove tecnologie (pensiamo al EGE: “European Group on Ethics in Science and New Technologies”, organo consultivo della Commissione Europea). Si tratta di un’opera che nasce da una tesi di laurea presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, ma che travalica la pedanteria di questo genere e si rivela sia come una panoramica su tutto il tema nella sua vastità, sia come un contributo originale per la «comprensione teologico-morale del lavoro umano» (così il sottotitolo), Labor e Habitus: suggestivi sono questi due termini del titolo. Da un lato, rimandano all’impegno anche faticoso, labor in latino significa appunto “fatica” (in francese il lavoro è travail), ma d’altro lato alla dimensione strutturale umana del lavoro come habitus operativus bonus, per usare una locuzione della Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino.

L’autore, il teologo sloveno Štefan Hosta, su tutta la mappa variegata delle questioni connesse a questo argomento così decisivo e incisivo per l’antropologia, la società e la storia umana impone uno schema ermeneutico particolare: «la dimensione intransitiva» dell’attività umana. In sintesi, questa categoria filosofica rimanda all’agire umano che trasforma l’interiorità stessa della persona, a differenza della «dimensione transitiva» che trasforma invece l’oggetto lavorato ed esterno alla persona. Per questo è rilevante la nozione sopra citata di habitus che impasta e imposta il lavoro con la stessa esistenza umana, e per questa via Hosta affronta anche i nessi con l’intelligenza artificiale, la robotica e la macchina sapiens.

In questa linea è illuminante una considerazione di Primo Levi nel suo romanzo di taglio “operaio” fin nel titolo, La chiave a stella (1987): «Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è un privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione della felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono».