Il lascito di Francesco al mondo: «Pluralismo e dialogo» Intervista a Giuliano Amato

dalla Gazzetta del Sud – 6 maggio 2025 – di Stefano Menichini

Professore Giuliano Amato, lei è da tempo un sostenitore della necessità di affrontare la crisi della società contemporanea anche con lo sforzo congiunto di credenti e non credenti, superando logiche di divisione e fratture ideologiche. Con i non credenti che prendono atto della indispensabile presenza dal punto di vista religioso nelle scelte pubbliche, e i credenti che senza rinunciare alle proprie convinzioni accettano pienamente il pluralismo, le diversità anche religiose e la pari dignità di tutti gli interlocutori. Ne ha scritto anche in un libro recente – “Il sogno di Cusano” – insieme a monsignor Vincenzo Paglia e a Giancarlo Bosetti.
Ecco, all’immediata vigilia del Conclave non le chiedo né previsioni né auspici, però le chiedo come proietta questa sua speranza sulla nuova fase, alla luce del lascito di Papa Francesco.

È proprio questo il terreno sul quale si coglie la portata del lascito di Francesco a un mondo sempre più alle prese con problemi enormi e sempre meno attrezzato per affrontarli. Basti pensare al cambiamento climatico per capire il drammatico contrasto fra il bisogno che c’è di una cooperazione che faccia convergere in sforzi comuni le nostre tante diversità e una realtà nella quale le diversità sono vissute al contrario come fonte di conflitti e non di comprensione reciproca. Ebbene, forse non è ciò di cui più abbiamo letto nei commenti dei giorni scorsi, ma è esattamente qui, è nella sua visione del pluralismo e quindi dei rapporti fra diversi, l’eredità più rilevante e preziosa di Francesco. Certo, è il Papa con le scarpe grosse, la casa piccola e l’auto utilitaria, il Papa vicino agli ultimi, il Papa che condanna la cultura degli scarti, quello che milioni di persone vorrebbero non aver perso. Ed è giusto che sia così. Ma attenzione, il Papa degli ultimi è lo stesso che insegna a riconoscere sempre l’altro, a convivere con lui e a trovare sotto le diversità, a partire da quelle religiose, le ragioni della comune appartenenza alla famiglia umana. È perciò il Papa che ad Abu Dhabi firma nel febbraio 2019 con il Grande Imam di Al-Azhar, Al Tayeb, un documento in cui è scritto che cattolici e musulmani accettano la cultura del dialogo come via, la collaborazione come condotta, la conoscenza reciproca come metodo. È questo il pluralismo di Francesco, ed è quello che più corrisponde al sogno di Cusano, il cardinale filosofo che dopo la conquista musulmana di Costantinopoli sognò un raduno dei rappresentanti di tutte le religioni davanti a Dio, il quale disse loro: “Dal momento che io sono uno e sono sempre lo stesso, le differenti credenze che ciascuno di voi tratta come verità a volte addirittura contrapposte sono dovute soltanto alla vostra imperfezione umana. Non certo a diversità dei miei insegnamenti. E quindi cercate di capirvi e di trovare ciò che, grazie a me, avete in comune”. Ecco, il messaggio è questo, per Cusano come per Francesco, e in esso leggiamo un pluralismo, che si ricollega a quello del dialogo tra fede e ragione promosso anni addietro da Habermas e Ratzinger, ma fa anche passi ulteriori.
Nella Laudato si’, Francesco offre al mondo, davanti alla crisi ecologica, non la verità, ma la cooperazione della sua fede alle altre fedi e alle scienze. Non dimentichiamo poi il suo no al proselitismo, che considera tra cristiani addirittura “preccaminoso”. Qui è anche ciò su cui si fonda la tesi del nostro libro: un impegno comune dei credenti nelle diverse religioni, perché la politica “essiccata” del nostro tempo possa trovare proprio nelle religioni, in ciò che le accomuna, il serbatoio dei valori di cui ha bisogno.

Lei usa spesso il concetto di “marcia in più”: quella che riconosce ai cattolici rispetto ai laici quando sono animati da una forte carica spirituale. E però osserva che questa “marcia in più” viene spesa troppo poco e raramente, quando invece sarebbe utile: vuol dire che spera in una Chiesa più interventista nel dibattito pubblico e sulla scena internazionale?

No, la marcia in più di cui io ho scritto non ha per soggetto la Chiesa e quindi i suoi interventi. Riguarda i credenti delle confessioni cristiane, che la marcia in più la posseggono tanto nei confronti dei non credenti, quanto dei credenti in altre religioni. È solo il Cristianesimo, infatti, che ha un Dio fatto uomo e che, attraverso questo Dio, fa dell’amore il sentimento di ciascuno verso gli altri. Ho detto più volte che due non credenti come Bobbio ed io non saremmo mai riusciti ad amare più di un numero limitato di persone. Ho rivelato che nessun’altra religione arriva a definire in termini di amore il rapporto, pur amicale e non sottile, verso gli altri. Che, si badi, non è un privilegio dei cristiani (almeno di quelli che la marcia in più l’hanno davvero, la sanno dover vivere), ma una responsabilità.

Lei ha osservato criticamente che spesso i credenti si ricordano di essere tali solo quando si parla di inizio e di fine della vita, dimenticandosene per tutto il resto – molto – che nell’esperienza umana si colloca tra la nascita e la morte. Papa Francesco, su altri temi apprezzato dalle correnti politiche progressiste e quasi considerato “proprio”, è stato sempre molto fermo e quindi scomodo sui temi etici, però ha richiamato alla necessità di spendere la propria fede anche su tutto il resto: l’accoglienza, la vicinanza agli “ultimi”, l’impegno attivo per la pace. Le sembra che il messaggio di Bergoglio sia stato ascoltato, che il prossimo Papa possa lavorare su una buona semina?

Se la marcia in più è una responsabilità, la prima cosa che ne consegue è che un cristiano, un cattolico, non può ricordarsi di essere tale solo quando in gioco ci sono le vicende della nascita o della morte, sulle quali per di più si fa portatore non dell’amore verso gli altri, ma di principi di fede, facendoli spesso valere con intransigente intolleranza. No, ci sono tutte le vicende che ci troviamo a vivere tra la nascita e la morte e nelle quali dovremmo ispirarci a quei valori di comprensione e solidarietà, comuni a tutte le religioni e che l’amore cristiano esalta ancora di più.

Ebbene, è davvero così nei confronti degli immigrati? Non dico di quelli che lasciamo morire nel Mediterraneo, ma di quelli che magari accogliamo in Italia e poi metteremmo sempre in coda nelle liste per gli alloggi popolari e li guardiamo con indifferenza vivere in baracche o addirittura in cartoni sotto i ponti. È così quando favoriamo l’evasione o l’elusione fiscale, magari celate (ma non troppo) nella rottamazione delle cartelle, concorrendo in tal modo a privare gli ultimi di risorse loro necessarie a sopravvivere? È così quando neghiamo cittadinanza ai transgender? Sono sicuri i cristiani di essere cristiani davanti a queste cose? Lo sono, certo, nelle questioni sulla nascita e sulla morte, ma spesso lo sono – come dicevo – anche troppo, negando, con l’inflessibile adesione ai principi, l’amore che li dovrebbe ispirare. Pensiamo al suicidio assistito e alla pietà che dovremmo esprimere nei confronti di chi ne ha richiesta, mentre vive giornate ridotte soltanto a una dolorosa attesa della morte. Pensiamo alle leggi sull’aborto approvate di recente da diverse legislature statali negli Stati Uniti, dopo la sentenza della Corte Suprema, che ha cancellato la precedente apertura del 1973. Sono leggi così restrittive da scoraggiare qualunque intervento medico sul feto, sino a provocare la morte della madre per infezione.

 È lo sviluppo terribile di uno scontro in atto da molto tempo…

Questo è tragicamente vero, ma mi spaventa spesso notare che, quando accadono cose del genere (ed è quello che è accaduto negli Stati Uniti), una buona dose della responsabilità è delle parti politicamente contrapposte, che non accettano vincoli di sorta a quello che per loro è un diritto ormai proclamato. Il linguaggio di Francesco della critica all’aborto è stato a volte troppo drastico e quindi offensivo. Ma non neghi che l’aborto è un’uccisione, non si osi far finta che non lo sia per non turbare l’immagine di un diritto, quando ciò che serve sono leggi equilibrate e condivise come quella che abbiamo in Italia. Non a caso, per gli autori della legge l’aborto che diveniva (giustamente) lecito era una “dolorosa necessità”, vissuta come tale in primo luogo dalla donna che lo decide.

In conclusione. Come ognuno di noi, anche Francesco parlava ogni tanto “ab irato”. Che quelle parole si sia indotti a respingerle o che si sappia leggere al fondo di esse gli stessi sentimenti che animano la sua eredità, poco importa. E’ questa eredità che lascia al suo successore e a tutti noi, perché la famiglia umana sappia vivere senza distruggersi le esperienze che l’attendono.