Gli uomini fra caduta e santità

da Il Sole 24 Ore – 28 agosto 2022 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi affronta il tema dell’origine del bene e del male.

«Lo studio biblico è diventato non la scienza della Bibbia, ma dei suoi studiosi: la Bibbia, però, non è stata scritta per gli studiosi… Conoscere tutti i dati a proposito di un testo non è ancora capire il testo… Non si riesce a leggere tutto su un soggetto: ci si sente colpevoli. Si riesce a leggere tutto: ci si sente frustrati… Dire stupidaggini su un testo è follia; citarle è erudizione… Non rimettere nel testo ciò che l’autore ha voluto lasciar fuori…».

Erano questi alcuni dei consigli che uno dei miei maestri, Luis Alonso Schökel (1920-1998), grande esegeta biblico, impartiva ai suoi discepoli. Li ho ripensati mentre leggevo il saggio di Mark S. Smith, docente alla Princeton e alla New York University, dedicato al c. 3 della Genesi e, quindi, ai temi della «caduta» adamica, del «peccato originale», della radice del bene e del male, del «paradiso perduto», sontuosamente cantato nel ’600 da John Milton. L’autore, infatti, pur non deponendo l’abbigliamento brillante dello stile anglosassone anche quando tratta questioni così paludate, rivela in filigrana l’imponente bibliografia che attorno a quei versetti si è incessantemente prodotta. Eppure bisogna riconoscere che «il cucinato è più del mangiato e quello che si scrive è più di quello che si legge», come ancora diceva quel mio maestro.

Alla fine del caleidoscopio delle ipotesi interpretative rimangono, però, sul tappeto gli interrogativi di fondo che sbocciano da quel c. 3 ininterrottamente «cucinato» in sede storico-critica e che dilagano nelle pagine successive della Genesi (come non pensare a Caino e Abele o al diluvio?). L’esito dichiarato del percorso di Smith è proprio quello di dispiegare il ventaglio delle domande, ritenendo già efficace questa sola ars interrogandi attorno ad alcuni picchi teorici ed esistenziali, come sono appunto la «caduta» (tema per altro esile nella sua presenza altrove nella Bibbia), il peccato, la natura umana.

In realtà, egli elabora anche non poche risposte, a partire dalla stessa tipologia di quel c. 3, connessa alla memoria dell’autore sacro il quale rimanderebbe allusivamente alla figura regale della dinastia davidica, all’amata Gerusalemme e all’epoca monarchica ormai affondata nel passato. La questione centrale si annoda, però, attorno all’umanità emblematicamente incarnata dalla coppia Adamo-Eva, nomi etimologicamente universali (l’«Uomo» e la «Vivente»), come lo sono le loro esperienze, dal matrimonio al parto e al lavoro. Ma il groviglio maggiore è proprio in quella «caduta»-peccato sulla quale si eserciteranno soprattutto san Paolo e il fiume maestoso della successiva teologia (Agostino ne è il primo vessillo).

Entra, allora, in azione non solo la libertà umana ma anche Dio in una interazione che può essere di contrappunto armonico o di accesa dialettica. Per questo, è necessario integrare alla malvagità radicale dell’umanità anche la santità di un Abele o di Enoc o Noè. Da discutere è anche l’interporsi di Satana, per altro assente nel racconto della Genesi, a meno che lo si identifichi col serpente, come farà il tardo libro biblico deuterocanonico della Sapienza (2,24). Come è evidente, mistero divino, figura umana libera, orizzonte comunitario, categorie morali come bene e male, bontà e colpa s’intrecciano tra loro in una trama fitta che Smith cerca di esplorare, assediato dalla marea esegetico-teologica elaborata fino ad oggi, rimanendo alla fine con un utile paniere di domande sottilmente venate di risposte.

Lasciando a parte le sue pagine, si deve riconoscere che una legione di teologi e di filosofi fino ai nostri giorni ha identificato in quel capitolo della Genesi un palinsesto dispersivo di tesi, spesso «mettendo nel testo ciò che l’autore aveva lasciato fuori», come sopra ammoniva Alonso Schökel. Il paradigma teologico classico ha letto nel peccato originale una solidarietà interpersonale nel peccato, fondata nell’unità e identità della natura umana, per cui il racconto biblico sarebbe un’eziologia metastorica di taglio sapienziale riguardante l’antropologia teologica. Detto in altri termini, si risalirebbe a un archetipo universale (Adamo-Uomo) per spiegare la situazione dell’intero arco storico dell’umanità; e questo verrebbe fatto attraverso una riflessione sapienziale, cioè filosofico-teologica.

Una particolare riflessione contemporanea ha aperto un’altra direzione ermeneutica, quella sociologica per cui il peccato originale sarebbe da individuare nell’ingiustizia strutturale della società umana a cui il singolo partecipa e di cui è vittima. Ecco, però, farsi strada anche l’approccio psicologico che fiorisce dal concetto di angoscia kierkegaardiano e che riceve gli opposti variegati e spesso dissonanti della psicoanalisi freudiana o junghiana. Né si può ignorare lo sforzo cosmologico-metafisico di Pierre Teilhard de Chardin con la sua visione evoluzionistica escatologico-cristologica, per cui l’itinerario della storia e del creato procedono verso una progressiva catarsi che nel Cristo finale avrebbe la sua meta suprema. Si dovrebbe, poi, parlare anche di alcune ramificazioni tematiche settoriali legate al femminismo secondo cui il nucleo centrale della colpa è nel sessismo patriarcale e maschilista.

Comunque sia, nel delta sterminato di esegesi e interpretazioni, rimane vero quello che osservava il critico letterario Stephen Greenblatt nella sua Ascesa e caduta di Adamo ed Eva (Rizzoli 2017): «La storia di Adamo ed Eva parla a tutti noi. Riguarda il nostro essere, la nostra origine, perché amiamo e soffriamo… Sono un’incarnazione della responsabilità e vulnerabilità umana».

 

Tags: