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Odio, sempre odio, fortissimamente odio

Odio le verdure e il colore giallo, odio andare a scuola, odio il caffè freddo e odio svegliarmi presto la mattina, odio quei capelli. Odio, odio, odio, e ancora odio.

Odio è un termine che, senza distinzione d’età, è entrato a far parte del nostro vocabolario quotidiano. Lo utilizziamo spessissimo, soprattutto noi giovani, con una semplicità e naturalezza sbalorditiva, come fosse un vocabolo qualunque. ERRORE.

Se ci soffermassimo un attimo solo a pensare cosa realmente significhi e rappresenti questa parola, forse smetteremmo di usarla con tanta scioltezza e facilità. Cercando su internet mi sono imbattuto nell’etimologia del termine odio ed ho trovato quanto segue:

Odio – Dal latino odium, derivazione di odisse “odiare”

Risoluta ostilità, un atteggiamento istintivo di condanna associato a rifiuto, ripugnanza verso qualcosa, un costante desiderio di nuocere a qualcuno.

Ostilità, condanna, ripugnanza, desiderio di nuocere a qualcuno. Ecco cosa significa realmente odio. Tutti concetti che dovrebbero essere quasi del tutto estranei ad una società civile e democratica – tranne forse nel caso dei broccoli e del caffè freddo, concetti che non si accostano nemmeno minimamente alla modalità e alla frequenza d’uso che facciamo del termine stesso. E allora perché lo usiamo? Perché e diventato quasi un intercalare; uno stato d’animo d’insoddisfazione che riversiamo nei confronti di persone e cose in maniera del tutto gratuita che riversiamo nei canali più disparati, da una chiacchiera al bar, al metodo più veloce e globale che abbiamo oggi di comunicare, ossia i social network.

Eureka! Ecco il problema – in tanti penseranno – sono i social network che alimentano l’odio. Di nuovo, ERRORE. Facebook, Instagram e Twitter rappresentano solo delle grandi casse di risonanza, ma non sono il problema: il vero problema siamo NOI.

Noi che ci nascondiamo dietro ad un profilo – con la malsana idea che questo basti a renderci immuni ed invisibili – sentendoci autorizzati a puntare il dito contro chiunque. Noi che consideriamo la nostra identità digitale diversa dalla nostra identità reale, convinti che la nostra opinione sia un dictat che tutti dovrebbero seguire, scrivendo post che non condividiamo nemmeno, magari, solo per avere consenso sociale e per sentirci parte di qualcosa. Noi che non ci rendiamo conto di quello che potrebbe causare il nostro sharesu coloro che danno peso a commenti poco felici. Noi che non consideriamo che – attraverso uno schermo – non siamo in grado di quantificare istantaneamente il danno che causiamo.

Si, perché chi dà un pugno in faccia o commette un danno di persona ne vede subito i segni ed è probabile che il rimorso lo aiuti a capire quanto abbia sbagliato nel commettere quel gesto. Online questo non accade e, di conseguenza, non si riesce ad avere la giusta percezione della sofferenza che causiamo alla vittima.

La cultura è l’unico strumento utile a combattere il fenomeno dell’hate speech. Non un algoritmo di un sito web, ma tanti libri, educazione, formazione e campagne istituzionali rivolte non al singolo tema ma bensì alla promozione e all’incentivo allo studio, che possa così tramutarsi in una progressione della società, contribuendo al superamento di tutte le barriere mentali che portano ad atteggiamenti ostili al prossimo.

Perché se è vero che “la lingua è la facoltà che ci rende umani” troppo spesso, ancora oggi, riusciamo a diventare disumani nell’usarla.

 

C.R.