La bimba del Burkina Faso

Lo scorso 16 febbraio si è concluso il primo progetto di alternanza scuola-lavoro realizzato dal “Cortile dei Gentili”, grazie al quale quindici ragazzi del Liceo Tasso di Roma hanno potuto confrontarsi con importanti giornalisti ed esperti del settore sulla parità di genere, la violenza contro le donne e l’immigrazione.

Dopo il percorso, e dopo aver ascoltato il vissuto e le esperienze di alcuni migranti, i ragazzi hanno raccontato, con le loro parole e le loro emozioni, queste storie.

L’infibulazione (mutilazione dei genitali femminili) in Burkina Faso è una pratica ancora molto diffusa, spesso imposta alle bambine dalle stesse famiglie. Natacha, grazie all’aiuto di una zia, riesce a sottrarsi all’operazione ed è costretta a fuggire e abbandonare il suo paese. 

La bambina del Burkina Faso ha tentato di rimuovere il suo passato, la guerra civile, il viaggio lungo ed eterno. Ma è impossibile dimenticare. Quella ferita al polso le ricorderà per sempre quell’attimo terribile. La scena è stampata nella sua mente. Si ripete costantemente, tutti i giorni: la nonna che la trascina di forza, il letto settorio dove viene sdraiata, il battito del suo cuore che rimbomba nelle orecchie, gli arnesi che vengono maneggiati, il freddo del metallo, l’odore acre della stanza.

Chiude gli occhi. E tutto immediatamente si cancella. E rivede la zia che piomba nella stanza, la prende e l’aiuta a fuggire da quell’orrore, da quell’insulsa tradizione dell’infibulazione che fa di una donna una donna pura e casta secondo la cultura della sua comunità. Durante la fuga, la bambina inciampa sulla lama di un coltello e si ferisce.

Quella bambina è stata fortunata. Lei ha solo una ferita al polso, non all’apparato genitale. Ma le sue amiche, cugine, sorelle, loro invece sì. Ed è come se in quella sola ferita al polso fossero racchiuse tutte le loro ferite, tutta la loro sofferenza, tutta la loro vergogna.

La bambina del Burkina Faso deve trattenere le lacrime e le urla che vorrebbero uscire dalla sua gola, simbolo di rivolta a quel tipo di vita a cui la donna è sottoposta, ma che tuttavia non può essere considerata vita. Lei purtroppo può solo ingoiare, accettare e cercare di dimenticare.

Alice Latella

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Quella grossa cicatrice al polso mostra sofferenza. La sofferenza di essere dovuta scappare dal proprio paese, il Burkina Faso. Quella stessa cicatrice, però, simboleggia anche la vittoria di una ragazza, Natacha, che ce l’ha fatta, che è riuscita a evitare quella tortura chiamata infibulazione.

La storia di questa ragazza burkinabé si somma alle tante altre storie di giovani che sono state sottoposte a questa barbarie, quale è la mutilazione genitale. Ma a differenza della maggior parte di esse, la storia di Natacha è a “lieto fine”, è una testimonianza di speranza oltre che di dolore.

Natacha era immobilizzata a letto dalla nonna e da altre donne, come una bestia, pronta per il l’operazione. Guardava colei che avrebbe dovuta proteggerla con occhi terrorizzati, non riusciva neanche ad immaginare tutta la sofferenza che avrebbe provato.

La zia però non poteva sopportare che la nipote facesse la stessa fine della figlia, morta in seguito ad una infezione causata da questa stessa pratica. Doveva fare qualcosa.

Decise quindi di agire e strappò Natacha da quel letto a cui era legata. Fuggirono. Fuggirono lasciando alle loro spalle tutte quelle grida confuse delle sue aguzzine. Fuggirono lontano. Era salva.

Nella fuga la ragazza si tagliò col coltello che avrebbe dovuto mutilarle i genitali, ma che invece le ha provocato una cicatrice sul polso. Guardandola Natacha si sarebbe detta, ogni volta: “Ce l’ho fatta”.

Martina Chiarini

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Mamma mi dice di entrare. Tutta tremante, procedo. Dovrei fidarmi. Sarà la cosa migliore per me. D’altronde mi ama più di tutto… Sarà l’unica soluzione per salvarmi, lo so.

Passo dopo passo, rallento. Mi sembra di avere i piedi ancorati al pavimento. Sono come nelle sabbie mobili. Sento che mi manca l’aria. Quasi mi fermo, ma nonna mi incita con una spinta.

Ci sono o quasi. Mi sudano le mani e mi gira la testa. Mi intimano bruscamente di sdraiarmi e così, come avessi perso ogni potere che ho su me stessa, o peggio, come se non lo avessi mai avuto, mi distendo. Fisso il soffitto, cercando di evitare gli sguardi dei miei carnefici e penso che non sarò più la stessa o forse, come mia cugina Amal non sarò più nulla.

Il chirurgo prepara l’occorrente e si appresta a operare. Chiudo gli occhi, per rifugiarmi nel mio mondo, per scappare dalla crudeltà che è in questo. Per essere donna ancora per un po’. Forse, poi donna ancora non lo sono mai stata, ma l’idea che mai lo sarò, che mai sarò moglie, che mai sarò madre mi corrode.

Ma zia Khadija con un movimento repentino si frappone tra me e lo pseudo medico.  Mi ordina di scappare. Apro gli occhi immediatamente.

Ha trovato il coraggio di fare ciò che avrebbe salvato Amal.

Continua a gridarmi di correre.

Io salto giù dal lettino e comincio senza più fermarmi. Urto il tavolino, ma proseguo imperterrita. Mi lascio alle spalle le lacrime di mia madre e le urla di mia nonna.

Corro, corro più veloce che posso, finché non sono lontana. Non smetto di correre. Mi fermo solo tra le vie del mercato, quando so di potermi confondere tra la folla. Riprendo fiato, ansimo a più non posso. Respiro, respiro profondamente. Mentre, quasi per sbaglio, abbasso la testa, mi rendo conto che ho una profonda ferita sanguinante sull’avambraccio. Devo essermela procurata durante la fuga urtando un attrezzo per l’intervento. Allora mentre tampono con il lembo della mia veste lo squarcio, capisco di non essermi mai sentita meno indifesa. Stringo il nodo della fasciatura e vado. Da quel momento non sarei stata più la ragazza di una volta. Non sarei più tornata a casa. Non sarei più stata debole. Da oggi sarei stata forte e questa cicatrice ne sarebbe stata la prova evidente. Da oggi sono libera.

Irene Nuzzo