La Bibbia rivive neI libri d’oggi

da Il Sole 24 Ore – 9 giugno 2024 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinal Ravasi ci racconta di come molti autori guardino alle Sacre Scritture.

La cadenza degli anniversari, soprattutto se centenari, ha almeno il merito di soffiar via la polvere dalle opere di certi autori dimenticati, con rare eccezioni come, ad esempio, accade quest’anno con l’insonne presenza di Kafka, morto quarantenne il 3 giugno di cento anni fa. Di lui è stato scritto e si dirà tanto sui vari supplementi o sezioni letterarie di giornali e riviste e forse sarà possibile identificare anche la sua originale filigrana “teologica” modulata sulla sua matrice ebraica. Noi ora vorremmo tentare una simile operazione molto più modesta su un paio di autori italiani, dei quali è in corso un centenario o un anniversario tondo. La messe sarà esile, anche perché la Bibbia – che usiamo come pietra di paragone – non è più “il grande codice” di immagini, simboli, personaggi, temi, narrazioni a cui in passato si attingeva con abbondanza.

Partiamo col centenario di uno scrittore di culto della nostra giovinezza e medietà, l’urbinate Paolo Volponi, nato il 6 febbraio 1924 e morto ad Ancona trent’anni fa nel 1994, espressione suggestiva del romanzo industriale nell’Italia del boom economico (a livello letterario su queste pagine è già efficacemente intervenuto Giuseppe Lupo lo scorso 4 febbraio). Noi selezioniamo due suoi romanzi, il Corporale (Einaudi 1974) e il Pianeta irritabile (Einaudi 1978), frutto di una nostra lettura ormai un po’ remota ma che ha lasciato una traccia. Nel primo caso alla radice c’è la simbologia biblica dell’arca di Noè (Genesi 6-9), sia pure ribaltata. Il diluvio è trasformato in una temuta esplosione atomica e il protagonista di nome Girolamo, come il santo traduttore della Bibbia in latino, progetta un’“Arcatana” nella quale salvare solo sé stesso e non tanto le altre creature viventi, come nel caso del patriarca biblico.

Quella capsula diventa una «tana» salvifica personale: curiosa è l’ipotetica polisemia del titolo Corporale che può rimandare anche a un arredo liturgico, una piccola tovaglia sulla quale sono posti il calice e l’ostia dell’eucaristia. Lo sfondo catastrofico avvolge anche l’altro romanzo, il Pianeta irritabile, una Terra ormai ridotta a una landa desolata, priva dell’umanità la cui rinascita è affidata ai protagonisti dell’opera, tre animali – il babbuino Epistola (!), l’elefante Roboamo (altro nome biblico), un’oca – e un nano che, però, ha rinnegato la sua umanità.

In un’atmosfera apocalittica, sotto una pioggia oleosa simile a quella caduta su Sodoma e Gomorra (Genesi 19,24), immersi in un diluvio di acqua putrefatta, i quattro intraprendono una sorta di esodo verso una terra promessa, in un intreccio tra le storie di Noè e Mosè. In questo pellegrinaggio emerge una misteriosa figura di imitatore del canto di tutti gli uccelli che si scopre essere stato un operatore di un centro elettronico, «Parnasonic», appunto un Parnaso ove si custodivano tutti i dati e i reperti culturali dell’umanità, riedizione dell’arca di Noè che era invece popolata di ogni specie vivente.

Ecco, infine, apparire davanti a questi profughi una sorta di Gerusalemme celeste, la cui planimetria è liberamente modellata e variata su quella dei cc. 21-22 dell’Apocalisse, di «forma grande, non circolare, né rettangolare: tra due vallate, un lago, e un fiume, foreste di qua e di là». Siamo, così, ormai in un originale Nuovo Testamento ove è la scimmia Epistola a immolarsi come Cristo per la salvezza degli altri, mentre tocca al nano, di nome Mamerte, di celebrare una stravagante eucaristia. Egli, infatti, spezza e condivide coi superstiti un foglio di carta di riso, sul quale era stata scritta da una suora malese una poesia amorosa. I tre si cibano di quella pagina il cui «Vangelo» d’amore sarà il nutrimento della futura generazione di persone giuste e pacifiche. Tra l’altro, il simbolo del cibarsi del libro sacro della Parola divina è presente nel profeta Ezechiele e nell’Apocalisse.

Mezzo secolo fa moriva, invece, a Roma a settantott’anni una scrittrice a prima vista lontana dall’orizzonte religioso, come essa stessa confessava a uno straordinario sacerdote e uomo di cultura, don Giuseppe De Luca. Era la pistoiese Gianna Manzini che gli scriveva: «Io non sono nutrita di sentimenti simili ai suoi… Mi trovo nel giro del mondo e mi ci piace». Se è lecita un’applicazione anacronistica, l’autrice sarebbe stata un’ottima interlocutrice “laica” nel “Cortile dei Gentili”, l’istituzione vaticana che organizza continui confronti tra credenti e non credenti. In verità, essa successivamente riconoscerà di essere stata colpita da una tardiva lettura dei Vangeli.

Questo incontro lascerà – a nostro avviso – una traccia nel suo romanzo maggiore, il Ritratto in piedi (1971), dedicato a suo padre Giuseppe. Nonostante egli fosse anarchico e ateo, la sua fisionomia esistenziale è disegnata dalla figlia ricorrendo implicitamente alla figura di Cristo. Comuni tra i due furono, infatti, il messaggio di amore, uguaglianza e fraternità, l’ostilità delle istituzioni ufficiali, la fedeltà all’ideale nonostante il tradimento degli amici e, alla fine, il martirio in un’uccisione crudele. Su questa scia vorremmo, a suggello, evocare un racconto della Manzini inserito nella raccolta Cielo addosso (1963).

Nel Vangelo di Luca Gesù è condotto – durante il processo giudaico – davanti al re Erode Antipa, figlio di Erode il Grande, che regnava sulla Galilea ove è collocata Nazareth. L’evangelista nota che il sovrano desiderava assistere a qualche gesto miracoloso. Ma a sorpresa, nonostante fosse stimolato in tutti i modi, Cristo «non gli rispose nulla» (23,6). Ebbene, il racconto della Manzini è intitolato proprio così: E non disse una parola, frase evangelica che apre anche un celebre canto spiritual, He never said a mumblin’ word. Nel racconto protagonista era una sorta di Christus patiens, un abilissimo pianista di colore che, per la discriminazione razziale, è rigettato e umiliato.

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