Kafka su un
crinale

Riportiamo l’articolo a firma del Cardinal Ravasi pubblicato nel fascicolo 2/2024 della rivista “Vita e Pensiero”.

 

Il 3 giugno 1924, un mese prima che compisse i 41 anni (era nato a Praga il 3 luglio 1883), Franz Kafka si spegneva nel sanatorio di Kierling, presso Vienna, dopo un calvario di cure della sua tubercolosi sopportato prima a Riva del Garda (1910-12) e a Merano nel 1920. Eppure nell’arco breve della sua esistenza, egli era stato uno scrittore immenso ma soprattutto inafferrabile e inclassificabile, come attesta la sterminata bibliografia su di lui, a partire dalla biografia, avvolta da un alone spirituale ambiguo e fin leggendario, dell’amico Max Brod (1937).

L’opera kafkiana (l’aggettivo è diventato uno stereotipo per definire un enigma) è, infatti, in bilico su un crinale tra fiabesco e realismo, tra senso e assurdo. Nei suoi Diari egli simboleggiava la sua identità nella ricerca di «una striscia assoluta di felicità», simile a una lama di luce in un oceano di tenebra. È, quindi, arduo districarsi in questo orizzonte, e su un crinale si è mossa anche l’ermeneutica critica della sua visione, scivolando talora persino sul versante religioso come parabola del rapporto tra uomo e divinità ignota e remota, ma più spesso attestandosi su quello psico-sociologico come allegoria della persona umana alienata e isolata in una società cristallizzata e soffocante.

Con questa premessa è inesorabile che la nostra lettura, affidata a un’evocazione ristretta in poche pagine, possa procedere solo a sprazzi di fronte a un autore che nel suo Quarto quaderno in ottavo ammoniva: «Non occorre che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Anzi, non ascoltare nemmeno, aspetta soltanto. Non aspettare nemmeno, sii assoluto silenzio e solitudine». In realtà, egli ha rotto questo silenzio e il primo squarcio che noi cerchiamo di individuare è proprio il varco sulla sua spiritualità che – soprattutto nei dialoghi con l’amico Gustav Janouch editi nel 1951 – non teme neppure di confrontarsi persino col fratello ebreo Gesù di Nazareth.

In verità si tratta di un sottrarsi, perché Cristo «è un abisso di luce ed è meglio chiudere gli occhi per non precipitarvi». Eppure, echeggiando inconsapevolmente una difficile frase paolina (Colossesi 1,24), non esiterà ad affermare che «se Cristo ha sofferto per l’umanità, l’umanità deve soffrire per Cristo». Tuttavia la vera matrice religiosa dello scrittore, nato in una famiglia ebraica, non poteva che essere giudaica, sia pure in quella forma fluida tipica del suo pensiero. In questa prospettiva, la trascendenza della divinità ai suoi occhi si rivela solo con l’irruzione di norme e di divieti spesso indecifrabili e impenetrabili, ma cogenti e fin asfissianti.

Ne deriva una sostanziale imperscrutabilità della volontà e della giustizia divina che ha le sue metafore narrative nei grandi romanzi come, ad esempio, nel Processo pubblicato poco dopo la morte del suo autore. A questo proposito vorrei offrire una testimonianza personale. Quando molti anni fa stavo approntando un vasto commento esegetico al libro di Giobbe, mi fu segnalato un saggio di un critico tedesco, Rudolf Suter, pubblicato nel 1976, dal titolo emblematico: Kafkas «Prozess» im Lichte des «Buches Hiob». Lo studioso riteneva che la filigrana di quell’opera fosse da cercare proprio nell’incessante provocazione del grande personaggio biblico che tenta di snidare un Dio sfuggente alle sue responsabilità, chiamandolo a deporre in un ideale assise giudiziaria.

Anche Josef K., trentenne impiegato di banca, viene arrestato e stritolato in una macchina processuale dai meccanismi sempre più complessi e indomabili. Vane sono le sue richieste di giustificazione; l’approdo sarà a una condanna inesorabile, senza che ci sia stata una voce capace di motivarne la causa. Scriveva Suter: «Il principio divino al quale Kafka si rivolge è talmente nascosto che non si sa più se esiste ancora; forse esso è soltanto la direzione nella quale l’uomo lancia il proprio grido». Sono evidenti sia il parallelo sia la divergenza rispetto al libro biblico. Da un lato, Giobbe nel suo incessante lamento manifesta il radicale sconcerto della sua situazione, di un’innocenza assurdamente punita, di un Dio muto e pur responsabile. D’altro lato, però, alla fine il Signore accetta di deporre nel processo e di interloquire dialogando con Giobbe che non aveva mai abbandonato la sua fede incrollabile in lui.

È stato, però, soprattutto un altro studioso, lo svizzero Herbert Tauber, nel suo imponente ritratto Franz Kafka, pubblicato a Zurigo nel 1941, a esplorare la produzione dello scrittore boemo per individuarne l’anima giudaico-biblica attraverso rimandi anche al Talmud e alla Kabbalà (anche se la conoscenza dell’ebraico da parte di Kafka non era tale da permettere un reale scavo in quei testi). In filigrana emergerebbe un Dio onnipotente che esautora l’uomo. E qui potrebbe entrare in scena il tormentato rapporto di Kafka col padre, che ha la sua attestazione suprema nella drammatica Lettera al padre (1919), 45 cartelle dattiloscritte di insolita veemenza che non giunsero però mai nelle mani del destinatario.

Basti solo citarne un paragrafo: «Dalla tua poltrona governavi il mondo. La tua opinione era giusta; qualunque altra opinione era pazza, stravagante, anormale. La tua fiducia in te stesso era talmente grande che non avevi bisogno di essere coerente per avere ragione… Ai miei occhi assumesti l’aspetti enigmatico che hanno i tiranni, il cui diritto si fonda non sulla riflessione ma sulla propria persona». E nei suoi Diari continuava implacabile: «I genitori che si aspettano gratitudine dai figli (anzi, spesso la pretendono) sono come usurai: rischiano volentieri il capitale pur di incassare gli interessi».

Si può immaginare quanto questo profilo del padre padrone si potesse incuneare anche nel concetto kafkiano della divinità e molti interpreti pensano che un altro dei capolavori postumi come Il castello (1926) possa essere la conferma di questa “teo-logia”. Al vertice della gerarchia di burocrati e funzionari che governano il villaggio dove giunge l’agrimensore K. (tra l’altro in tedesco il verbo vermessen, «misurare», come aggettivo significa «temerario»), siede un misterioso signore. A questa struttura piramidale con una vetta dominatrice tutti gli abitanti del villaggio obbediscono, uniformandosi a leggi oppressive in contrasto con la ragione e persino con l’etica. A salvare K. non riusciranno neppure l’amore di una donna, Frieda, e la pietà di un funzionario.

D’altronde, come è noto, lo scrittore visse diverse esperienze d’amore in modo molto travagliato, prima con Felice Bauer, poi soprattutto con la destinataria delle famose Lettere a Milena Jesenska (1920-22) e, infine, con Dora Dymant, con cui convisse negli ultimi due anni. Come confessava all’amico Janouch, «l’amore è tutto ciò che aumenta, allarga, arricchisce la nostra vita, verso tutte le altezze e tutte le profondità. L’amore non è un problema, come non lo è un veicolo; problematici sono soltanto il conducente, i viaggiatori e la strada». È quindi la persona umana, la società e la vita a scardinare la realtà, la bellezza dell’amore. E nei suoi Diari lapidaria era la conclusione: «Non ci sono matrimoni infelici ma solo incompiuti. Incompiuti perché contratti da essere umani incompiuti, arenati nella loro evoluzione, strappati dai campi prima del raccolto. Far contrarre il matrimonio alle persone di natura immature e come far studiare l’algebra in prima elementare».

Nell’imponente e frastagliato panorama letterario kafkiano – dicevamo – possiamo solo aprire qualche squarcio con sprazzi di lettura tematica. Decisivo è il pessimismo che si ramifica spesso nelle sue pagine perché, come confessava a Janouch, «gli uomini diventano cattivi e colpevoli perché parlano e agiscono senza figurarsi l’effetto delle loro parole. Sono sonnambuli, non malvagi». In realtà, «non è difficile essere anche stupidi perché la storia è piena di esempi incoraggianti». E nei suoi Diari continuava: «Viviamo in un’epoca malvagia: lo si vede prima di tutto dal fatto che niente è più chiamato col suo nome preciso».

Sembra di sentire il Qohelet biblico: «Tutte le parole/atti sono logore e l’uomo non può più usarle» (1,8). Così – continuava Kafka – gli uomini «non sanno cosa dicono e parlano soltanto per mettere in moto l’aria e parlando alzano il viso e seguono con lo sguardo le parole pronunciate». E ancora: «Le domande che non si rispondono da sé sul nascere non avranno risposta». Sempre attingendo a quella miniera di riflessioni e aforismi che sono i Diari, scopriamo anche un fremito etico-religioso che reagisce a questa radicale miseria umana: «Il peccato: ne conosciamo la parola e la pratica, ma ne abbiamo perso il senso e la nozione. Forse è già questa la dannazione, l’abbandono da parte di Dio, l’insensatezza».

Formidabile per illustrare questo vuoto fatto di non-senso è una sua novella dalla quale traiamo un frammento emblematico. Il protagonista, un uomo smarrito, cerca una via d’uscita dal labirinto urbano. «Trovai un agente, corsi da lui e, col fiato in gola, gli domandai la strada. Sorridendo mi disse: È da me che vuoi sapere la strada? Gli risposi: Sì, da solo non riesco a trovarla! Voltandosi come quelli che ridono di nascosto mi disse: Rinuncia! Rinuncia!». Folgorante è la ripresa di questa scena da parte del nostro Giorgio Caproni, nella poesia dal titolo esemplare Bisogno di guida: «M’ero sperso. Annaspavo. / Cercavo uno sfogo. / Chiesi a uno. Non sono / mi rispose / del luogo». Eppure, confesserà ancora Kafka: «Io sono ignorante, ma questo non significa che la verità non esista».

L’orizzonte in cui l’umanità è immersa, allora, è simile a un formicaio ove domina la più frenetica agitazione. Impressionante è uno degli Aforismi di Zürau, il villaggio boemo ove Kafka fu ospite di sua sorella Ottla tra il 1917 e il 1918, annotando su 103 foglietti spunti di riflessione e detti vari (da noi li tradusse nel 2004 Roberto Calasso per Adelphi). Ecco l’apologo. «Venne data la possibilità di scegliere fra diventare re o corrieri del re. Come bambini, tutti vollero essere corrieri. Per questo ci sono solo corrieri, scorrazzano per il mondo e, poiché di re non ce ne sono, gridano i messaggi, ormai privi di senso, l’uno all’altro. Volentieri porrebbero fine alla loro miserevole vita, ma non osano farlo per via dell’impegno che si sono presi».

Nello squarcio che abbiamo aperto sulla visione negativa dell’umanità offerta dall’autore, molti dei lettori si attendono che venga collocato anche uno dei suoi racconti più celebri (e sconcertanti), La metamorfosi (1916), con quell’incipit surreale: «Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme inetto immondo», ripugnante ai suoi stessi familiari, nutrito solo di rifiuti da parte di una domestica. Non è necessario narrare la trama, basta evocare la finale quando, gravemente ferito da suo padre, Gregorio muore sotto il letto ove era solito ripararsi e quella serva, pur commiserandolo, lo getta nella spazzatura.

Parabola allucinante ed enigmatica, questo racconto è forse un’amara rappresentazione di un’esistenza degradata che riduce la persona a verme che non può incontrare pietà o redenzione. Una nota a margine paradossale: nel greco originario dei Vangeli la “trasfigurazione” di Cristo sul Tabor è detta “metamorfosi”, ma essa è luminosa e gloriosa. Tuttavia è necessario segnalare che talora Kafka, soprattutto dialogando con Janouch, cerca di affacciarsi da una feritoia del suo drammatico “castello interiore” verso la luce e afferma che «la sofferenza è l’elemento positivo di questo mondo, anzi, è l’unico legame tra questo mondo e il positivo».

Quel movimento insensato e frenetico sopra descritto può, allora, mutarsi in una traiettoria che punta a una meta ed è solo così che si ottiene la pace e la quiete dell’anima. È ciò che egli descrive nei Diari quando cita un detto del filosofo greco Zenone di Elena (V sec. a. C.), il negatore del movimento, il quale riusciva a escludere il moto anche della freccia scagliata: «La freccia che vola riposa» (in tedesco der fliegende Pfeil ruht). Avere un bersaglio da raggiungere genera un riposo sereno, un paradossale intreccio tra movimento e stabilità.

Tanto altro si dovrebbe dire su questo personaggio capitale nella cultura del ‘900. L’invito a (ri)leggere alcuni suoi testi è scontato in questo centenario. Certo, spesso sono scritti ardui e provocatori, ma a questa critica Kafka stesso forse rispondeva con una considerazione presente in una sua lettera del 1903 a Oscar Pollack: «Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno che ci martelli sul cranio, perché lo leggiamo? Buon Dio, saremmo felici anche se non avessimo libri e quei libri che ci rendono felici potremmo, a rigore, scriverli da noi. Ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che ci piombano addosso come la sfortuna, che ci turbano profondamente come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come un suicidio. Un libro deve essere una piccozza per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi».