Intervento scritto del Cardinal Ravasi in occasione del Cortile dei Gentili di Firenze

È con qualche emozione che inizio questa riflessione, con emozione scontata anche se non è la prima volta che parlo nell’interno di questo spazio meraviglioso, mirabile. È un’emozione appunto per il contesto, ed è un’emozione anche per tutte le persone che sono qui presenti, a partire da chi rappresenta la città di Firenze, sia dal punto di vista civile sia dal punto di vista religioso. Desidero fare una riflessione piuttosto libera sul tema che dominerà poi dopo, che attraverserà in filigrana tutti gli interventi che seguiranno. Avevo pensato varie strade da percorrere attorno a un tema così immenso, dalle mille iridescenze come quello della bellezza. Avevo pensato anche di fermarmi su un argomento che in questo periodo mi affascina ma anche mi tormenta, ovvero quello del rapporto tra arte e fede fino ad arrivare all’arte e liturgia. Ho pensato, invece, di proporre un pensiero di natura più generale che presenta due momenti o due movimenti di riflessione. Comincio subito col primo elemento collocandolo sulla base di una frase (è una battuta soltanto) che si trova nell’interno della Bibbia, in un libro conosciuto, ma poco letto, dell’Antico Testamento, il Siracide. Gesù ben Sira è un autore che rappresenta certamente il giudaismo palestinese ma che avverte il respiro continuo dell’orizzonte che sta attorno che è quello dell’ellenismo incombente, con il quale non ha ancora il coraggio di confrontarsi del tutto. Siamo, quindi, nel clima forse anche di un Cortile dei Gentili, clima che sarà poi del tutto aperto, direi quasi dissolto da ogni ombra col libro della Sapienza, su un altro testo anticotestamentario sorto ad Alessandria d’Egitto, con un confronto ormai diretto col mondo greco, con la cultura greca. Ebbene la frase che troviamo – in verità la troviamo in uno dei tanti testi che sono giunti a noi, perché il testo del Siracide è piuttosto mobile – recita così: «nell’interno dell’elogio dei grandi d’Israele, uomini che si sono appassionati a cercare la potenza della bellezza». Ecco allora il primo elemento della mia riflessione, la potenza della bellezza e perché dobbiamo in qualche modo riproporla ai nostri giorni, per quale ragione? È una potenza, io direi grande ma anche oscura. I greci l’hanno capito chiaramente perché hanno messo alla genesi, se si vuole dell’arte, da una parte Apollo, se volete Ermes, che per esempio inventa la musica inciampando in un guscio di tartaruga e tendendo i fili su di esso e scoprendo l’armonia, oppure se volete anche dall’altra parte Orfeo, la seduzione, il fascino della musica ma dall’altra parte abbiamo anche Dioniso, l’aspetto dionisiaco, orgiastico, che la musica, l’arte e la bellezza crea fino ad avere persino l’ottundimento delle menti. Ecco ci sono due volti nell’interno della bellezza, tutti e due necessari, io direi, perché noi siamo impastati di oscurità e di luce e la bellezza è anche nell’oscurità, è anche nell’interno del “male” persino, del dolore, della lacerazione. De Mousseau diceva che i canti più belli sono i canti più disperati. Effettivamente se non ci fosse stato il problema del male, per esempio, pensate quanta letteratura non esisterebbe.

Tra poco sentiremo, come saprà fare il prof Givone, anche se su un aspetto particolare, la Leggenda del Grande Inquisitore, ma pensiamo Dostoevskij non esisterebbe semplicemente se non ci fosse il dramma del delitto e del castigo, della colpa, dei bassifondi, dei demoni che attraversano l’umanità. Nelle sue elegie udinesi, una figura di poeta e i poeti sono anche profeti a me particolarmente caro anche se devo riconoscere sommamente arduo nella lettura, Rilke, nelle elegie duinesi, scriveva nella prima delle elegie: il bello è nient’altro che l’inizio del tremendo. Il bello parte solare e poi precipita nel tremendo, nel terrore. Se volete ancora si possono ripetere definizioni che vanno in questa linea. Ho scelto ancora un’altra testimonianza molto diversa per cultura, Virginia Woolf, in una stanza tutta per sé quest’opera del 1929.

La bellezza ha sempre due tagli: uno di gioia, l’altro di angoscia e taglia in due il cuore. Anche l’allora cardinale Ratzinger, in un testo che ha scritto proprio sulla bellezza, ha questa espressione: la bellezza ferisce ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo. Vedete? Il negativo e il positivo: una ferita aperta che però ti fa tendere a una guarigione estrema, a una salvezza ultima. Ecco perché ho voluto evocare questo primo elemento, soltanto accennandolo, l’ho voluto evocare soprattutto tenendo conto del contesto in cui siamo ai nostri giorni in cui, e qui dico anche qualcosa a proposito del Cortile dei Gentili, è facilissimo incontrare, dialogare, trovarci insieme con grande frutto, con personalità anche non credenti che però hanno una tensione profonda dentro di sé comunque essa approdi. E dall’altra parte invece abbiamo, ecco il vero dramma, questo orizzonte, che è simile alla mucillaggine, incolore, inodore, insapore, la superficialità, l’indifferenza, la banalità, la stupidità, la volgarità che sono quasi come l’atmosfera fondamentale, quasi il basso continuo della nostra società. E nell’interno di questo orizzonte, la bellezza, se esiste, esiste per essere fotografata al massimo. Non c’è assolutamente la capacità di lasciarsi ferire da questa bellezza, per questo dobbiamo riproporla e rimetterla in tutta la sua forza perché inquieti, perché crei ancora, almeno un sussulto, un fremito. Vedete? C’era una ballata che ha scritto una poetessa ebrea tedesca, che si è rifugiata poi in Svezia per sfuggire alla persecuzione nazista, Nellis Axe, e ha ricevuto anche il premio nobel insieme a un grande scrittore ebreo, Shemuel Agnon. Ebbene, ha scritto una ballata sui profeti che ha una sorta di antifona, che a me piace ripetere spesso perché dovrebbe essere un po’ la funzione anche delle nostre parole che a volte, anche un po’ per colpa nostra sono anch’esse grigie, incolori, non hanno la forza offensiva che, per esempio, aveva la parola di Cristo. A me fa sempre impressione quel passo del Vangelo di Giovanni quando i sommi sacerdoti decidono di arrestare Gesù e mandano le guardie per arrestarlo e le guardie tornano a mani vuote e allora i sacerdoti dicono: ma perché non ce l’avete condotto? E questi poliziotti semplici rispondono con una dichiarazione straordinaria: mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo! La parola che non si arresta, non s’imprigiona e loro restano con le mani vuote. Ecco quindi l’importanza dell’avere una parola bella, nel senso pieno, potente, che riesca ancora a incrinare questo clima, che riesca ancora a lacerare, a ferire appunto. Diceva questa sorta di antifona: se i profeti rompessero per le porte della notte, incidendo ferite nei campi dell’abitudine (notate: proprio un ritratto del nostro tempo) incidere ferite nei campi dell’abitudine, nel terreno incolore. Se i profeti rompessero per le porte della notte cercando un orecchio come patria, orecchio degli uomini ostruito di ortiche, sapresti tu ascoltare? E la risposta è una domanda che resta sospesa, ai nostri giorni in maniera particolare, le chiacchiere, la volgarità, la miseria anche generale che ci ottunde l’ascolto, la conchiglia dell’ascolto non ha più l’eco del mare, ha l’eco piuttosto di un chiacchiericcio continuo, nel mondo appunto morirà in un mormorio, in una lania, diceva Eliott, non in un urlo. Ecco perché credo che sia importante ancora riproporre la potenza della bellezza, della parola, dell’arte in tutta la sua forza.

La seconda e ultima riflessione che voglio fare e questa è evidentemente a prima vista un po’ scontata. La bellezza, è stato ricordato, anzi anch’io vorrei recitare questa frase di Giovanni Paolo II nella lettera agli artisti citata dal prof Natali: la bellezza è cifra del mistero ed è richiamo al trascendente. La bellezza di sua natura tende all’oltre e all’altro; è per eccellenza il tentativo di varcare le frontiere e di dire l’ultima parola, di dire il tutto, di dire l’assoluto quasi. Io vorrei anche qui mettere alla base una frase della Bibbia, dell’Antico Testamento di matrice greca, quel libro della Sapienza a cui prima facevo cenno. Sorto ad Alessandria d’Egitto, alle soglie del cristianesimo in contatto con la cultura platonica, conosce certamente il pensiero stoico questo autore, vedete proprio col paganesimo che era l’ateismo allora, era in dialogo, in ascolto e si lascia anche, riceve dei riflessi, scrive al capitolo 13 versetto 5: dalla grandezza e bellezza delle creature (ana logos) per analogia, gradino per gradino, da questa bellezza ( theoreitai) l’autore, theoreitai di solito si traduce “si contempla” l’autore, ed è vero, theorei vuol dire vedere anche, ma theorei contiene anche la nostra parola “teoria”, quindi c’è anche la riflessione, c’è anche la razionalità che è se vogliamo dire l’arte ha una sua metarazionalità, non un’irrazionalità, è una razionalità superiore, la poesia, la grande poesia di sua natura suppone un’altra grammatica rispetto alla grammatica immediata. Ed ecco allora questa dimensione, la bellezza che ci porta ad andare verso orizzonti più alti, a salire sui sentieri d’altura. E dico qui in questo caso non solo per il credente, appunto come diceva, contempla l’autore, contempla Dio, anche per chi non lo è. E difatti io ricordo spesso quella testimonianza che aveva dato Fontana, Lucio Fontana, quando i giornalisti gli avevano chiesto ragione del suo taglio famoso che veniva letto o in maniera molto superficiale o comunque non veniva compreso nel suo significato simbolico e lui aveva detto semplicemente: ma io vorrei con questo taglio (almeno diceva così ai giornalisti ma lo diceva anche la vedova di Fontana) io volevo soltanto creare uno spiraglio sull’assoluto. È interessante questo. Vedete, qui “ferita” – prima dicevo – che diventa feritoia, feritoia su quell’infinito e quell’eterno verso cui si tende. E io sono appena reduce da Bucarest dove ho voluto evocare, quando mi hanno dato la laurea honoris causa all’Università di Bucarest, due grandi figure di atei,  che però sono estremamente interessanti per questo discorso che stiamo facendo. Il sogno è se fossero ancora atei come Cioran e come Ionesco, io penso anche come Camus(Camù) per esempio. Ebbene c’è, lo ricordavo anche quando abbiamo inaugurato a Bologna il Cortile dei Gentili, c’è una frase, anzi una considerazione scagliata contro noi teologi da Cioran. Cioran, figlio di un prete ortodosso che abbandona completamente il cristianesimo ma che ininterrottamente dice: io sono il delatore di Dio, continuamente lo spio per vedere se il suo nome sia nulla o tutto. Ebbene egli scrive a un certo punto: voi teologi avete perso un’infinità di tempo e un’infinità di energie, uno scialo di energie intellettuali per cercare di dimostrare l’esistenza di Dio e avete dimenticato l’unica che avevate lì, così facile, disponibile: dopo che si è ascoltato la messa in si minore o una cantata o la passione di Bach, Dio deve esistere. Vedete, la via della bellezza, come via che apre il trascendente, che apre il mistero. Ed è per questo motivo che, e mi avvio alla conclusione, è stato significativo che a un certo momento nella teologia, un teologo molto noto del secolo scorso, von Balthasar, ha pensato di costruire, ed è interessante il titolo della sua grande opera monumentale “Gloria”, però sappiamo anche che il sottotitolo è ed è interessante “Per un’estetica teologica”, non per una teologia estetica. È la via dell’estetica la grande via. Nel medioevo si diceva la via pulchritudinis per riuscire a scoprire il trascendente, anzi egli affermava esplicitamente che è la categoria ermeneutica interpretativa fondamentale dell’essere e dell’esistere di Dio, dell’uomo e del cosmo ed è significativo perciò che il Nuovo Testamento, ma già l’Antico se si vuole, curiosamente usa ininterrottamente un aggettivo che è l’aggettivo kalos per indicare quello che noi abbiamo ininterrottamente tradotto con buono nelle nostre traduzioni, che è vera anche, perché appunto la trascendenza ha in sé verità, bellezza, bontà, giustizia e così via, è simbolica, circolare, perché non sappiamo, molti di voi lo sanno già che Cristo è il “Bel pastore” egò eimi o kalos poimeno kalos,  ma dall’altra parte non sappiamo che per esempio nel Nuovo Testamento quando si deve dire nelle vostre bibbie avete opere buone, in greco c’è kalà: opere belle, buona condotta è bella condotta, buona coscienza è bella coscienza, fare il bene 2 lettera tessalonicesi al capitolo terzo di paolo, fare il bene, il verbo kalopoiein, fare il bello, e ancora, quando la folla nel vangelo di marco davanti a Gesù, vede la sua opera , dice: “ha fatto bene ogni cosa”, la traduzione greca è “ha fatto kalos (in bellezza) ogni cosa”. Ecco allora la categoria estetica come la grande categoria interpretativa dell’etica stessa ed è per questo motivo che ai nostri giorni abbiamo bisogno di ritrovare la bellezza che ci salvi da due grandi mostri che incombono. Sono in italiano basati sulla stessa radice, sulla stessa etimologia ma sono diversi dal punto di vista semantico questi due vocaboli anche se noi li confondiamo. Noi siamo assediati dalla “bruttura” che è una categoria di tipo etico e dalla “bruttezza” che è una categoria di tipo estetico. Ecco la bellezza ci libera da questo peso  e ci fa tendere verso quella bellezza assoluta che per il credente è Dio, Dio è bello, il bel pastore ma che per il non credente è in assoluto, forse, il grande mistero che ci avvolge, quell’oceano nel quale Wittgenstein ci insegnava le cui onde battono sulla nostra pelle ed è al di fuori di noi. Io spesso ripeto, soprattutto quando facciamo questi incontri sul tema dell’arte una frase che vorrei mettere a conclusione ed è la voce di un non credente, di un ateo, di un anticristiano, ferocemente anticristiano, giunto fino al punto di, si dice, essersi fatto incidere nelle suole delle scarpe due croci per poter calpestare questo segno mentre si muoveva, era Henry Miller, un autore scandaloso, come ben sappiamo, “il tropico del capricorno”, “il tropico del cancro”

Il quale, in un suo saggio intitolato “La sapienza del cuore” ha questa frase che, a mio avviso, è il riassunto un po’ di tutto il discorso che ho fatto fin’ora e che unisce paradossalmente in maniera folgorante arte e fede: “l’arte e la fede non servono a nulla, tranne che a mostrare il senso della vita”.

Moni Ovadia:

Vorrei attaccarmi alle altissime riflessioni del Cardinal Ravasi sulla bellezza con una storiella. In un piccolo villaggio ebraico della Polonia, una cittaduzza (Statle) arriva un forestiero da un altro statle, un’altra cittaduzza e le cittaduzze sono luoghi in cui si conoscono tutti. Allora lui ferma il primo ebreo che incontra e gli domanda: Prego signor ebreo, può dirmi lei dove io posso trovare Iankel Epinski. Ma quale Iankel Epinski? Lei deve conoscere lui, sicuramente lo conosce. Iankel Pinski è uno piccolino che ha una gobba sulla schiena come il monte Sinai, l’avrà visto. Iankel Epinski che ha una gobba sulla schiena come monte Sinai? No. Non è possibile che non lo conosce. Lui ha un naso così grande che tocca il suo mento. Mi spiace non posso aiutarla. Ma non è possibile, lei deve averlo visto. Lui si riconosce perché ha gli occhi storti, uno è quasi sotto la guancia e l’altro è quasi sulla fronte. Mi spiace ma proprio non posso aiutarla. Ma non è possibile, lei deve averlo visto. Perché Iankel Epinski ha le gambe così corte che quando sta in piedi sembra seduto. Ah! Quel Iankel Epinski, con gobba come il monte Sinai, il naso che tocca il suo mento, un occhio sotto la guancia, l’altro sulla fronte e con le gambe corte. Ah! Davvero un bell’ebreo. Ora l’espressione yiddish ashenor yid (un bell’ebreo) nel mondo della yiddishk.. indica la bellezza vera, quella che hai dentro. Si tratta sempre ed esclusivamente di una bellezza spirituale. Non che il mondo della yiddishkai non riconoscesse la bellezza, la riconosceva, quella bellezza apollinea da cui siamo sedotti. Si dice di un grande maestro del Talmud che quando vedeva passare una donna molto bella alzava gli occhi al cielo e, sorridendo, diceva: Padrone dell’universo com’è belle l’opera delle tue mani. Sapevano riconoscerla, però, la vera bellezza rimane quella. Il concetto di bellezza, nella Scrittura ebraica, è intrinsecamente legato alla condizione di spiritualità. La parola che si usa per bellezza, per arte, a dir la verità, ma parte dal “bel fare”, è la parola “omanut”. Uman era l’artigiano, come nel greco moderno kaliteknis, l’artista si chiama kaliteknis quello che fa la bella tecnica. Così era l’uman, omanut, ha la stessa radice di emunà (fede) e di imun (training inteso per il cristiano come “gli esercizi spirituali”, il training per arrivare alla fede). Dunque “omanut, imun, emunà” hanno la stessa radice. Quindi sembra che la bellezza sia in qualche misura il riconoscimento della bellezza e l’andare verso la bellezza sia in qualche modo esercitare la fede ed esercitare nel riconoscimento della bellezza il training che ti porta alla spiritualità (io preferisco parlare più che di fede, di spiritualità, perché sono un dubitante). Ora, una ghemarà recita così: una bella moglie, una bella casa, attrezzi gradevoli (gli attrezzi sono gli strumenti per creare come un bulino, ma attrezzi sono anche gli strumenti interiori. Devono essere capaci ma anche gradevoli, ma anche belli) ampliano l’orizzonte del sapere dell’uomo. Cioè la bellezza è strumento di conoscenza. La radice daat to, la sua conoscenza, (daat è conoscenza) la troviamo anche nel verbo che è tanto irriso dai cabarettisti francamente a corto di argomenti, cioè Sara conobbe Abramo e Abramo conobbe Sara (si fanno tante battute sul conobbe). Dunque si usa come verbo per indicare la relazione intima fra l’uomo e la donna (conoscere). Questo perché: perché una relazione che parta dall’emozione, dalla contemplazione della bellezza reciproca, se non è uno strumento di conoscenza rischia di essere uno strumento di uso, di prevaricazione e, deprecabilmente, di violenza, di sopraffazione oppure di reciproco divoramento. Ma la Torah ci segnala anche un’altra cosa: che noi non conosciamo solo con la mente, non è solo concettualmente che arriviamo alla conoscenza ma che persino il rapporto erotico è strumento di conoscenza così come è strumento di conoscenza il sentimento, l’emozione, i turbamenti, cioè c’è un modo di conoscere che è completo, che tocca tutte le fibre di cui siamo dotati. Ecco perché l’operare artistico è strumento di conoscenza. Ora, dentro questo contesto, il dilemma dell’artista ebreo sarebbe questo: fare della propria vita arte, o fare della propria vita un’opera d’arte. Compito del buon ebreo sarebbe fare della propria vita un’opera d’arte cioè vivere come un’opera d’arte in modo che lui venga riconosciuto come creatore della propria vita, creatore nel senso di formatore della propria vita in modo artistico, in modo da renderla riconoscibile come un’opera d’arte. Ma è possibile integrare i due livelli cioè risolvere la contraddizione su un piano terzo cioè integrando la propria vita come opera d’arte e facendo anche arte nella vita. Della prima parte del dilemma incontriamo l’espressione kafkiana. Il suo dramma personale per certi versi, che entrerà anche nel genio della sua scrittura, lui aveva scelto di fare della sua vita arte, di rinunciare a vivere per fare l’artista. Il contratto che lui proponeva a Felice Bauer, un contratto matrimoniale perverso, senza contatti fisici. Io scriverò e tu starai nell’altra stanza. Quindi l’arte come dannazione, come rifiuto a vivere. Da questa grande contraddizione kafkiana nasce un’opera d’arte sconvolgente, forse il più grande esperimento letterario di tutto il novecento, dice Baioni, il più grande critico kafkiano, che ci racconta la solitudine dell’uomo, proprio il destino dell’uomo a partire dalla condizione dell’uomo ebreo doppiamente sradicato. Ma ci sono altre dimensioni dell’operare artistico e del vivere che possono esprimersi in una risonanza. Io l’ho incontrata personalmente e fisicamente, fuori dall’ambito ebraico, è stato per me un incontro sconvolgente sul quale continuo a meditare, sia come essere umano sia come qualcuno che traffica con l’arte (non mi ritengo un’artista piuttosto uno spacciatore di comunicazione di forma artistica). Ho incontrato questo piano terzo in una straordinaria suora libanese che si chiama sr Marie Keirouse. È una suora maronita, a mio parere il più grande fenomeno di vocalità liturgica che oggi si possa ascoltare al mondo. Sr Marie canta canzoni melchite e maronite ma canta anche liturgie cristiane in arabo. Quindi la sua arte attraversa anche spiritualità attraverso una relazione fra suono, lingua. Per me incarna una sorta di sintesi artistica misteriosa e magica dell’intero monoteismo proprio perché l’arabo è lingua semita. Ebbene quando sr. Marie riesce a ottenere questo, perché sr. Marie canta nella vita essendo lei una religiosa. Perché è diventata una superstar mondiale, perché ha scelto di fare del canto il proprio magistero. Lo scelse un giorno a Beirut, era giovanissima, religiosa, non cantava fuori dalla Chiesa, cantava solo all’interno della liturgia. C’era la terribile guerra dell’82. Sr. Marie con altri sentì provenire da una strada adiacente al convento in cui lei stava delle urla spaventose. Uscì e vide una madre, una donna, riversa sul corpo del figlio esangue, in un lago di sangue. Questo giovane diciassettenne morto, disse lei per una pallottola vagante non si sa di quale delle forze in campo, e questa madre urlava e bestemmiava contro tutti, contro gli uomini, contro il cielo, contro la guerra, coi ruggiti di una belva ferita. Quando, alzando gli occhi per prendere il fiato per continuare le sue bestemmie, vide sr. Marie che era conosciuta a Beirut e le fece una domanda quasi insensata: sr. Marie lei è qui? Sr. Marie piangeva come piangevano tutti quelli che erano intorno e questa madre chiese a sr. Marie: la prego, canti per mio figlio. In altre circostanze sr. Marie non avrebbe cantato fuori dal contesto in cui cantava. Diciamo che la regola glielo proibiva ma lei scelse di cantare per quanto e come non lo sa neppure lei. Se ascolterete sr. Marie nella vostra vita, capirete che è una voce sorgiva, non si capisce quando comincia e quando finisce. Ebbene in quel momento lei cantò, quando finì il canto il canto, il volto di quella madre era disteso, la furia se ne era andata e disse a sr. Marie: grazie, adesso mio figlio riposa in pace. Da quel momento sr. Marie decise che il canto sarebbe stato il suo magistero. Sr. Marie rappresenta per me la sintesi folgorante di quella doppia dimensione: di fare arte della propria vita e fare della propria vita un’opera d’arte perché sr. Marie versa i cospicui guadagni del suo magistero in un centro per la pace e lei educa i bambini facendo scuola, non raccontando storie edificanti.

Cosa centra tutto questo con la memoria? Questo è per la relazione fra bello e spiritualità.

Vorrei dare alla memoria la mia seconda riflessione. Nel mondo ebraico, quando diciamo “memoria”, ancorché il monito della memoria ci sia arrivato nel deserto. “Ricorderai” (iescor) è uno dei doveri dell’ebreo, si riferiva allora ad Amalech, l’odiatore professionale di ebrei. Ebbene “ricorderai”: quando parliamo di memoria non possiamo che collegarci a quella memoria anche se oramai il paradigma della memoria è uscito da quella memoria. Tutti, coloro che sono stati lacerati, popoli, genti, comunità, sentono anche loro di dover avere una memoria. La memoria ebraica è diventata paradigma del senso della memoria come progetto per il futuro. Una delle grandi protagoniste di questa opera di memoria sulla tragedia dei Tuzzi, lei africana, una dei Tuzzi portava una stella di Davide e lei mi ha detto: noi dobbiamo fare come gli ebrei. La memoria, quella memoria. Ebbene, quella memoria richiama all’orrore assoluto. Dove finisce lì la bellezza, che cosa succede lì dell’arte. Ha senso parlare di bellezza, ha senso parlare di arte. Il cardinale  Ravasi ci ha detto che la bellezza ha un suo aspetto luciferino o c’è il dolore nella bellezza non perché l’orrore sia bello ma perché ci sollecita in qualche modo. Forse perché dobbiamo cercare di evitare di impazzire o perdere non tanto la nostra fede in Dio ma, cosa ancora più grave, la nostra fede definitiva nell’uomo. Qui ci soccorre un singolarissimo esempio. Un’opera d’arte unica nella storia dell’umanità da questo punto di vista, diceva Primo Levi. Si intitola Il canto del popolo ebraico massacrato, di cui c’è una mirabile traduzione di Erri De Luca. Quando la resistenza del ghetto di Varsavia, immerso nell’orrore e nello sterminio, dovette testimoniare, scelse vari modi. C’era chi faceva la cronaca di ogni evento e la seppelliva in barili sotto terra perché non andasse perduto neanche un evento dell’orrore, un secondo, una anche microscopica efferatezza. Ma la resistenza del ghetto di Varsavia, il comitato scelse un poeta Izzak Kalze Nelson, perché lui attraverso la poesia rendesse opera di testimonianza. Perché lo strumento della poesia che è strumento per la creazione di bellezza, nel senso complessivo, anche più drammatico, ebbene quello strumento ci porta a potere non affrontare, ma entrare in una relazione con l’orrore. Io credo che se noi fossimo portati a quella porta e vedessimo davvero cosa fu lo sterminio, forse nel giro di 15 giorni perderemmo la ragione, forse commetteremmo un suicidio. Allora cosa diventa questa poesia che è veramente unica come diceva Primo Levi, perchè è l’opera di un morituro, di uno che è insieme testimone e vittima e che ha capito lucidamente tutto. Nel poema di Kalze Nelson non c’è illusione, e c’è anche il santo Benedetto, come lo chiamiamo noi, verso cui Kalze Nelson si rivolge per negarlo ma cui continua a rivolgersi. In questa negazione di lui, ultimo Giobbe, c’è in quella poesia ancora un lascito. La poesia, la pietas dell’operare poetico, la pietas della bellezza poetica, funziona per noi generazioni successive che non siamo stati nella Shoa, perché forse uno che c’è stato ha ragioni terribili per resistere ancora a vivere. Allora la poesia così come i disegni dei condannati a morti degli internati, quei disegni di quelle anime contorte ma trasfigurate nel disegno, che ci parlano paradossalmente di più dei cumuli dei cadaveri dei documentari. Allora quell’operare artistico, quella scelta di andare disperatamente verso la bellezza come statuto dell’uomo che non può essere strappato da lui funziona in qualche misura come lo specchio di Perseo che impedisce che la medusa ci pietrifichi. Allora ecco che se l’arte può avere una funzione così straordinaria di farci entrare in una relazione senza farci perdere il senno allora ecco che l’operare artistico rappresenta molto di più di quello che noi supponiamo. Per entrare in ambito cristiano, io sono ossessionato da un’immagine, se non sbaglio è Kranach, è un Cristo che sta non sdraiato, non nella posizione della deposizione ma di fianco, come un ammalato; sembra un Cristo permanentemente agonizzante. Quel Cristo di Kranach a me sembra parlarci in una sintesi mirabile in una condizione in cui siamo oggi. Al Cristo non è dato di morire, non è dato di risorgere, è dato solo di agonizzare, per la bruttura, la devastazione del senso di cui ci stiamo macchiando.

ERRI DE LUCA: Chi parla nell’arte

Io vengo da un posto, Napoli, che è uno dei golfi più celebrati della terra. La bellezza lì ci è stata sparsa intorno con generosità. Per noi di quel posto la bellezza non è un panorama e non è una quinta, non è una decorazione ma è la forza compressa dentro l’energia del suolo che può scaraventarci gambe all’aria in ogni momento attraverso terremoti e eruzioni. La bellezza per noi ha questa indifferenza e ingovernabilità e indifferenza profonda a noi e alla nostra esistenza. Siamo dei parassiti che possono essere buttati all’aria in ogni momento e quando non succede questa scossa, questa espulsione, questo sfratto, siamo lo stesso parassiti perché noi, in quel frattempo, succhiamo il sangue alla bellezza. Bellezza è una forza presente dentro la creazione e dentro la natura; è stata messa apposta, a contrappeso di tutta la distruzione e di tutto lo spreco. Il libro detto da noi Ecclesiaste, in sua lingua originale, Qohelet, ha un verso che dice: ogni cosa ha fatto bella in un suo punto. Non c’è nessun punto della creazione che non abbia questo grano di bellezza contraddizione a spinta contraria della dissipazione e della distruzione. Esiste in un verso di una poeta russa, mia preferita, Arina Zvetaeva dice: oltre all’attrazione terrestre esiste l’attrazione celeste. Non dice nient’altro, Marina. Ma questa frase non è una trovata poetica, uno spirito di contraddizione nei confronti della gravità. Esistono in natura delle forze precise, forti, che spingono dal basso verso l’alto, a controspinta della forza di caduta. La corrente ascensionale di una parete al sole, le maree, il fuoco, una eruzione e poi la più bella di tutte, le forze di natura che spingono dal basso verso l’alto l’albero, che dal fondo della terra, spinge, spinge, sale fino a occupare spazio in mezzo all’aria. Esistono delle forze di natura. Un matematico e fisico inglese si accorse della legge di caduta perché una mela gli era caduta matura o mezza marcia sul parruccone. Dice la leggenda che allora, ne cavò la notizia della legge di gravità. Però non gli era venuto in mente a quel matematico e fisico inglese che c’era stata una forza opposta  che con linfa, clorofilla e luce aveva portato la mela in cima a quell’albero. Ci voleva una poeta russa per accorgersi della legge dell’attrazione celeste. Ecco la bellezza corrisponde a questa legge che spinge dal basso verso l’alto, a contraddizione della gravità e anche delle oppressioni. La bellezza non è soltanto un’opera d’arte, che dovrebbe essere un nostro esercizio di imitazione della bellezza, della natura intorno. La bellezza è anche una forza politica: la bellezza della uguaglianza, la bellezza della libertà, della fraternità e per contro la bruttezza di certi posti produce dei risultati politici, umilia, abbassa, degrada, criminalizza le persone che vivono in quelle condizioni. La creazione pianta all’ultimo giorno la creatura umana dentro quel giardino bello per eccellenza e la cosa che chiede a quella creatura è di custodirla e di lavorarla. I due verbi, custodire e lavorare, in ebraico sono li stessi verbi con cui la creatura umana deve occuparsi della divinità. Il verbo shamar e avad sono i verbi con cui deve custodire la terra e servire la terra e deve custodire la divinità, osservare la divinità e servire la divinità, lavorare la divinità. Sono la stessa cosa, è l’opera dell’uomo. Bello il momento in cui smette. C’è una bella immagine che si trova nello zoar in cui dei sapienti vedono sei asini pungolati da una guida e allora dicono: ecco, quello è il sabato, lo shabbat, il giorno di pace e di interruzione che sta pungolando gli altri sei giorni e che giustifica il cammino e il peso di quei sei giorni. Noi custodiamo e proteggiamo e serviamo l’ambiente che ci è stato assegnato? No, non lo facciamo. Ma questo non ha niente a che vedere con la possibilità, non umiliamo in questo modo la bellezza, degradiamo la nostra natura, la bellezza è inaccessibile alla nostra distruzione. Comunque risorgerà, comunque ripartirà oltre le nostre ceneri, oltre le nostre distruzioni. Noi semplicemente degradiamo noi stessi. La bellezza è stata la spinta della conoscenza. Qual era la scienza più approfondita dell’antichità? L’astronomia. Perché era magnifico il cielo, era bellissimo il cielo da vedere, e nelle zone temperate si sviluppò l’astronomia e potevano capirla, intendere come si muoveva quella meraviglia là sopra e conoscevano il cielo meglio della terra e la notte meglio del giorno, per ammirazione e per stupore – perché questo è il sentimento che induce e incute la bellezza. L’artista, chi è? Un libero inventore? L’artista è un esecutore, l’artista è un vice che ripete il compito di imitare la bellezza. Il primo artista della storia sacra è colui che viene incaricato, nel corso del viaggio nel deserto, di tutta la costruzione dell’opera sacra e degli arredi sacri. Si chiama Betsalel, il suo nome vuol dire “nell’ombra di El, di Elohim, della divinità”. Così è l’artista, è uno che sta dentro l’ombra delle divinità e obbedisce, è capace di tutto ed è capace di fare tutto quel Betsalel perché è riempito del vento di Elohim, ruah Elohim. C’è un vocabolo in ebraico che vuol dire sia “parola” che “cosa compiuta”, dabar, cioè una parola che diventa immediatamente cosa compiuta. In quella Scrittura è possibile, nella nostra è molto lontana la parola che diventa cosa compiuta, anzi la parola si è presa una bella distanza, una bella licenza, una bella vacanza dalla cosa compiuta. Ma lì la parola coincide con la cosa compiuta, la parola della divinità fa divenire il mondo, inaugura i sei giorni della creazione perché prima li dice e poi succedono, è la sua parola che fa venire il mondo, la sua prima parola sarà luce (ieì or), la luce avviene. Ma prima ancora della luce c’era il vento di Elohim che se ne andava sulla superficie delle acque della terra. Quel vento di Elohim, quel vento di prima della luce, è quello che investe, dà forza e competenza e conoscenza a Betsalel e in più la sua saggezza si irradia dal cuore. Questo dice la Scrittura sacra, saggezza di cuore, la saggezza per la Scrittura sacra non sta nella testa, sono i greci che hanno fatto venire un mal di testa a Zeus per far uscire la dea Minerva dalla testa e assegnare a quell’ultima estremità del corpo umano, quello che sta dalla parte opposta dei piedi, il compito della saggezza. Gli ebrei la depositavano e la mettevano nel cuore, perché lì era la fonte, l’energia di tutte le manifestazioni del sentimento umano. E quindi era saggio anche di cuore Betsalel. Davide dice in un suo salmo: straniero io sono presso di te”. Straniero presso la divinità, Davide, quello che è stato scelto dalla divinità, l’ultimo dei fratelli per diventare re in Israele, quello che conquistato Gerusalemme, l’ha presa, l’ha voluta, l’ha trasformata nella sua capitale. Lui dentro quella capitale, dentro quella scelta e quella storia dice: io sono straniero preso di te. Questo è il sentimento religioso di Davide. E se non è residente lui, se non si sente in possesso lui, nessuno ha diritto di accampare residenza e possesso. Questo è il sentimento dell’artista, quello di essere uno straniero in mezzo al mondo e all’opera che sta facendo. Quella storia di Betsalel e della sua costruzione di tutti gli arredi sacri avviene in mezzo al deserto, in mezzo alle tappe, si sposta continuamente, fanno 42 tappe. In mezzo a quel deserto si fabbrica, la divinità che cammina con loro, che si accampa. Davide in una chiesa o in una sala come questa non si sarebbe raccapezzato e non avrebbe riconosciuto la sua estraneità. Qui si sarebbe sentito un invitato, un ammesso a questa abbondanza e consistenza di arredo. Lui è uno straniero presso la divinità e questo è il suo sentimento religioso e il suo sentimento religioso è il sentimento dell’artista, un vice che si arrabatta e che si trova dentro un percorso, dentro il deserto di tappe più o meno segnate ma che non portano da nessuna parte perché lo zig zag di 42 tappe è la

Via di un ubriaco che non trova la via di casa. Moni Ovaia raccontava del ghetto di Varsavia. Lì, quella comunità di insorti perché nell’ultimo momento quel ghetto insorge, quella comunità di insorti cerca di spedire fuori dal ghetto dei poeti. Fanno così gli alberi in fiamme, quando sono circondati dalle fiamme, buttano lontano e alla svelta gli ultimi semi che hanno, li spargono lontano, il più lontano possibile. Ecco i poeti erano i semi, ma quel racconto della distruzione si chiama canto e si chiama giustamente canto perché riesce a raggiungere la temperatura del canto, riesce a trasformare quella distruzione in un canto che tutti possono leggere, che tutti possono tramandare. La poesia si prende questa enorme responsabilità, se la carica sulle sue magre spalle e si porta la responsabilità di trasformare le tragedie, le disgrazie, le immensità delle storie dell’umanità in canto, in canto che può essere tramandato e ripetuto. Una poeta russa, Anna Kmatova, si trova negli anni 50 a fare la fila davanti all’ingresso di una prigione, a Leningrado, ora quella città ha cambiato nome ma all’epoca si chiamava ancora così, sta lì insieme a tanti altri e sta facendo la fila perché suo figlio pure è chiuso là dentro. È lì con i suoi pacchetti e la sua attesa infinita, sono lì da ore; intorno c’è il cordiale inverno russo che li spazza e non si sa nemmeno se saranno ammessi o no a quell’ingresso o se smaltiranno là fuori il tempo della visita mancata. Ed ecco che in mezzo a quella fila ammutolita e congelata i suo nome circola perché è conosciuta, perché ha l’idea che da quella parti i poeti sono conosciuti, erano conosciuti, i loro versi venivano ripetuti, le loro strofe erano conosciute a memoria da tutti come da noi le poesie, le strofe di Orietta Berti. E così era conosciuta, Anna Kmatova, il suo nome circola per la folla che sta in fila e una donna davanti a lei, sentendo che c’è una poeta dietro, magari non l’ha neanche mai sentita ma una poeta ci sta dietro, si volta verso Anna con una faccia sulla quale era passato con l’aratro il secolo della storia del 1900 e le dice: voi potete descrivere questo? E Anna risponde: io posso. Ecco la poesia, Anna, si mette in bocca la responsabilità di rispondere  al “questo” di quella donna del 1900. Ecco perché la poesia e la bellezza non sono dei decori, non sono delle serenate sotto a un balcone chiuso, ma sono la forza di combattimento e di resistenza dell’umanità.

ANTONIO PAOLUCCI: L’arte che parla o cerca di parlare

Eccome se parla l’arte. L’arte sa essere, può essere terribilmente eloquente, terribilmente persuasiva, minacciosamente persuasiva. Voi ne avete un esempio perfetto in questo luogo, il Salone dei Cinquecento. La misura del Salone dei Cinquecento dall’utopia di Girolamo Savonarola. Lui voleva, nel palazzo dei padri, uno spazio sufficientemente grande per ospitare i giusti d’Israele e di Firenze, i cittadini netti di specchio, quelli che avrebbero custodito e amministrato Firenze, libera città di Cristo. L’utopia savonaroliana finisce, come sapete, quel giorno di maggio del 98 nel rogo della piazza della Signoria. Questo spazio rimane a disposizione per chi vorrà usarlo. E chi lo usa? Lo usa quel signore lassù, vedete? Che sta al centro del soffitto. È un’immagine che rasenta la blasfemia. Sta lì come nostro Signore in paradiso. Un angelo che ha l’iconografia dell’angelo cattolico. In realtà è una Nike, una vittoria greca che lo incorona. Intorno a lui ci sono gli stemmi delle magistrature soppresse; è l’autocrate, Cosimo dei Medici, duca di Toscana, che ha assunto il potere qui nello spazio di Savonarola, dentro il palazzo del popolo, il palazzo delle arti e delle corporazioni e dice: d’ora in poi comando io e la mia famiglia. È l’autocrazia dinastica che viene imposta in Palazzo Vecchio e in città. Cosimo dé Medici ha a sua disposizione un esecutore geniale, Giorgio Vasari (quest’anno celebriamo con una bellissima mostra gli Uffizi, con due mostre ad Arezzo, i 500 anni della sua nascita). Architetto, urbanista, organizzatore di cantieri, oltre che teorico e storico dell’arte e grande scrittore italiano perché la lingua del Vasari è una delle più belle della nostra storia letteraria. Ebbene Giorgio Vasari per il suo duca fa tutto questo. Il soffitto è la celebrazione di Cosimo, le gesta del principe e al tempo stesso la storia della città. Ma c’è di più! A destra e a sinistra ci sono questi affreschi terribili che parlano di popoli sconfitti, di autonomie sottomesse e umiliate. E il duca, Cosimo, che racconta come ha fatto a sottomettere non degli stranieri ma i suoi connazionali gli altri popoli di Toscana (Siena che viene presa e assediata nel 1555; la sottomissione di Pisa, ecc.). Non si era mai vista prima in Europa una rappresentazione del potere autocratico altrettanto totale. Anche a Venezia c’è il grande spazio del salone del maggior consiglio ma lì i teleri di Tintoretto, di Palma il giovane, dello Schiamone ecc.,  che popolano le pareti parlano di san Marco, di Venezia che sconfigge i nemici esterni, i nemici storici, l’imperatore germanico, il sultano di Costantinopoli, i pirati croati e sloveni. Qui invece il duca, lui, racconta di come ha fatto a sopprimere con la guerra, con la violenza la dissidenza e l’autonomia dei popoli toscani. È un esempio perfetto di ideologia politica totalmente laica, anzi totalmente atea nel senso che reale della parola. Non solo e non tanto perché non c’è un solo simbolo religioso qui dentro, c’è un papa ma è Leone X e faceva comodo metterlo perché celebrava la storia dinastica della famiglia Medici. E ci sono invece le similitudini erculee cioè queste sculture di Vincenzo dè Rossi e c’è n’è anche una di Michelangelo che nella metafora, nella rappresentazione analogica, fanno capire come il duca Cosimo ha schiacciato i suoi nemici, come ha superato le prove, esattamente come ha fatto Ercole con le sue famose fatiche e in tutte queste sculture c’è il segno, il marchio dell’autocrate, il capricorno, che era il suo segno zodiacale. Io mi ricordo un giorno del 1991, mi pare, vent’anni fa, quando arrivò qui il Dalai Lama. Io all’epoca ero consigliere comunale, insieme ad altri amici potei godermi la scena in primissima fila. Era sindaco all’epoca Giorgio Morales che fece il discorso che ogni sindaco fa quando deve rendere omaggio a un’autorità religiosa, a un premio Nobel, a un grande personaggio della cultura o della politica. Fanno cioè il lantra lapiriano, il solito che si fa sempre: Firenze, città sul monte, luogo di incontro ecc. E il Dalai Lama, nella sua mantella color zafferano, con l’interprete che nell’orecchio gli traduceva ogni parola del sindaco. Intanto i suoi occhietti da topino intelligente saettavano, sguardi a destra e a sinistra. E poi quando il sindaco ha finito di parlare, lui ha detto, e tutti siamo rimasti abbastanza sconcertati perché diceva la pura verità. Il vostro sindaco parla di città, di pace però io mi guardo intorno e vedo gente che si taglia la gola, che si ammazza e aveva perfettamente ragione. Aveva capito tutto quello che c’era da capire. Questo per farvi capire come l’arte sa essere totalmente eloquente. Certo il Dalai Lama non credo sapesse gran che della battaglia di Scannagallo o della presa di Siena o dei fuorisciti strozzi o del duca Cosimo però bastava guardare per capire che questa non è la fiaccola sul monte, questo non è il crocevia degli incontri della pace e della benevolenza. Come sapete io sono direttore dei Musei Vaticani da un po’ di tempo e quando, di solito il pomeriggio tardi d’estate, passeggio da solo per le gallerie immense e infinite, per le sale dei musei vaticani e dei palazzi apostolici, faccio sempre una riflessione che è questa: la nostra Chiesa romano cattolica avrà avuto certo meriti e demeriti, ma almeno uno dobbiamo riconoscerlo, quello cioè di avere regalato al mondo la bellezza. Quel tipo di bellezza che saputo affrontare senza timore, senza imbarazzo, lo splendore del mondo visibile. Se girate per i Musei vaticani vi accorgete che ci sono più uomini e donne nudi tra gli affreschi e le sculture, che in qualunque altro museo del mondo. La Chiesa ha pensato che la bellezza del mondo, la bellezza dell’uomo, delle donne, degli uomini, della natura, degli animali, dei colori, delle stagioni, sono niente altro che l’ombra di Dio sulla terra e non era mica facile arrivati a questo perché c’è quel passaggio di san Paolo nella 1 Corinzi quando dice: nunc videmus per speculum et in enigmate. Noi guardiamo il mondo come uno specchio deformato, come se il mondo visibile fosse un enigma. Un giorno lo vedremo come veramente è, un giorno lo conoscerò come sono conosciuto. Molto vero, molto bello ma pericoloso perché ci vuol poco ad arrivare da questa affermazione all’idea che il mondo visibile è un inganno diabolico, qualcosa che ci può perdere. Invece la Chiesa romano cattolica ha detto che le cose sono come Dio le ha fatte e sono belle perché Dio è bello. Per questo, se noi andiamo per esempio, nella galleria palatina, vediamo la Madonna della seggiola. Ogni volta che io entro nelle chiese di Roma (e questa è una perversione pericolosissima) vedo chiese come S. Maria in via oppure S. Marcello al corso che sono sontuose chiese barocche, vedo che hanno messo sull’altare l’icona russa. Quando la stessa santità di nostro Signore, il papa, a 200 metri dalle stanze di Raffaello… La chiesa ha combattuto secoli per cacciare via i bizantini per mettere dentro Giotto e Gentile da Fabriano e poi il Masaccio e poi Raffaello per arrivare alla Madonna della seggiola, uno splendore di pelle, di carne, la luce degli occhi, che stringe un bambino bellissimo che affonda come in un paradiso nel caldo tepore del corpo materno. E questa Madonna, la cui modella era la fidanzata di Raffello stesso, la famosa Fornarina, guarda tutti noi e guarda in particolare le donne che sfilano nella galleria palatina, come se volesse dire loro: ce l’avete voi un bambino così bello? Ecco questo è l’incarnazione e deve essere rappresentata. La bellezza è questo. Pensate se avessero seguito invece quell’opzione pericolosissima di Paolo di Tarso…ma adesso c’è questa regressione – ne parlava Jean Clair nell’incontro di Parigi. Noi abbiamo conosciuto un cattolicesimo protestantizzante, diceva Jean Clair, e adesso stiamo attraversando un periodo di cattolicesimo ortodossizzante e questa afasia espressiva, paura di rappresentare la bellezza visibile, questo ritorno all’icona intesa come simbolo, riduzione ad minimum, il pauperismo e il minimalismo, sono cose pericolosissime per la Chiesa romano cattolica che non è minimalista né pauperista.