È sempre colpa del diavolo

da Il Sole 24 Ore – 1 dicembre 2024 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Card. Ravasi parla del saggio di Laura Pasquini dal titolo Il diavolo, un’opera che esplora l’evoluzione iconografica e culturale della figura del diavolo nella storia. Partendo dalla Bibbia e attraversando i secoli, il testo analizza come l’immagine di Satana si sia trasformata dall’antichità ai giorni nostri.

Persino un insospettabile Baudelaire era convinto che «la più grande astuzia del diavolo è farci credere che non esiste», echeggiato anni dopo da un altro sorprendente scrittore come Gide che confessava: «Non credo nel diavolo, ma è proprio quello che il diavolo spera: che non si creda in lui». Era ancora questo conclamato agnostico ad aggiungere una riflessione più sofisticata: «Se il diavolo potesse, direbbe: Io sono colui che non sono», con evidente rimando all’auto-definizione biblica di Dio a Mosè: «Io sono colui che sono» (Esodo 3,14), rivelandosi in tal modo l’ombra del divino.

Si potrebbe incolonnare un’imponente sequenza di attestazioni su colui che è chiamato nella Bibbia e nella tradizione “Satana”, in ebraico “l’Avversario” – una sorta di procuratore divino nel consiglio della corona del Signore, secondo Giobbe (1, 6-12) – oppure diábolos, in greco “colui che divide”, che incrina l’amore tra le persone, che frammenta la società, che sparge menzogna (diremmo oggi, anche fake news), che tormenta l’unità serena della stessa persona. Lasciamo ora a parte il vasto capitolo teologico, che ha alla base gli indemoniati evangelici, non di rado semplici incarnazioni del binomio retributivo “delitto-castigo” per cui una malattia come l’epilessia (Marco 9,14-29) o la pazzia (5,1-20) veniva ricondotta a una possessione diabolica. Tuttavia altre volte sono oscure presenze anti-Cristo (1,21-27).

Si dovrebbe scendere, poi, lungo il fiume dei secoli approdando, ad esempio, al Credo del popolo di Dio di Paolo VI (1968) o al Catechismo della Chiesa cattolica (1992) e a certe frequenti affermazioni dello stesso papa Francesco. Restano, però, fermi alcuni snodi, come quelli del primato di Dio (Satana non è la divinità negativa di un dualismo teologico) e del rilievo della libertà umana per cui non «è sempre colpa del diavolo», come ironizzava Dario Fo. Con questa premessa religioso-culturale, per altro striminzita, vorremmo introdurre i lettori in un vero e proprio mondo capovolto di mirabilia alla Hieronymus Bosch. Stiamo parlando della «storia iconografica del male», come recita il sottotitolo di un volume dal titolo lapidario Il diavolo, tracciata da una importante storica dell’arte medievale (ma non solo) dell’università di Bologna, Laura Pasquini.

Riconosciamo di aver seguito le pagine di questo saggio, edito in modo raffinato anche per l’apparato iconografico, come fosse una sorta di pellegrinaggio dissacrante in una galleria oscura, ove a ogni angolo entrano in scena satanofanie, spesso folgoranti a causa della genialità dei vari artisti. Come si può immaginare, si procede dalla tarda antichità di Ravenna all’Alto Medioevo coi suoi codici miniati, fino al «grande exploit» diabolico del romanico e del gotico, che introduce in modo sontuoso il modello del Giudizio universale. Si trapassa, poi, nel Rinascimento che ha pur sempre sul fondale l’iconografia antecedente: qui l’orizzonte sulfureo si allarga. Come non pensare a Michelangelo, al Signorelli di Orvieto o, prima, al citato Bosch affacciato ancora sulla stagione medievale?

Da lì, Pasquini ci conduce nel Seicento «fra terrore e ragione, fra mostruosità e umanizzazione», per lasciare spazio poi a un’ampia serie di ideali pagine bianche, quelle del Secolo dei Lumi che ha tacitato il demonio come relitto arcaico irrazionale. Costui, però, si ripresenta nell’Ottocento con volti inediti, come quelli del Lucifero o dell’angelo decaduto: facile è pensare alla visione romantica di Satana, archetipo prometeico dell’eroe audace che sfida Dio, impugnando il vessillo della libertà, della bellezza, del piacere, infrangendo le catene moralistiche che tarpano le ali dell’uomo anelante a un folle volo, come si proclamerà nell’enfatico Inno a Satana di Carducci.

Inatteso, in questa diacronia diabolica, è il capitolo finale che approda alle «ultime metamorfosi» sataniche: ad esempio, il ricorso alle “tentazioni di s. Antonio” (Dalí, Ernst) o il curioso Angelo del focolare sempre di Ernst (1937), e al Lucifer di Pollock (1947). Veramente provocante sarebbe l’accostamento di una delle più arcaiche testimonianze, una maschera demoniaca musiva di Aquileia del IV sec., con l’ormai notissimo “diavoletto” emoticon di un Web pullulante, appunto, di diavoletti smitizzati e secolarizzati. Ci si imbatte in tanto altro nell’anti-pellegrinaggio satanico rappresentato nelle pagine di Laura Pasquini: solo per esemplificare quasi casualmente, citiamo il bestiario del male, il diavolo sconfitto, il ricorso al grottesco, il profilo trifronte di una trinità diabolica, il papa diavolo della polemica protestante rinascimentale, lo psichedelico Cerchio limite IV dell’olandese Escher (1960) e così via.

Rimane, però, una suggestiva impressione finale. Quella della studiosa bolognese è una sorta di narrazione che si segue quasi con colpi di scena, squarci e sprazzi incessanti; eppure il fascino del dettato non offusca mai il rigore della documentazione e dell’analisi iconologica. Anzi, emerge una straordinaria capacità interdisciplinare che innesta testimonianze letterarie, filosofiche, teologiche e storiche nella trama artistica. Un testo prezioso, quindi, non solo in ambito accademico ma anche per questa nostra epoca demitizzante nella quale, per citare Papini, «l’ultima astuzia del diavolo è quella di spargere la voce della sua morte». Come risultato si ha, allora, l’amaro esito prospettato dal Faust di Goethe: «Hanno scacciato il Maligno, ma tutti i malvagi più piccoli ci sono restati».

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