Dio è … Amore?

Nel giorno dello Yom Kippur, almeno fino alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi e pronunciava il nome di Dio, confidando nella Sua misericordia (Es 34,5-7). Successivamente, “vi furono mistici cabalisti che sostennero come l’intera Torà altro non fosse che un unico, immenso nome di Dio. Quel nome rivelato al roveto ardente che nell’interpretazione rabbinica indica Dio in quanto misericordia” (P.De Benedetti). Di questo nome – e di questo insegnamento – “l’unico senso, nascosto nella mente divina, sarà rivelato nell’età messianica; ma anch’esso in realtà sarà soltanto l’inizio di un cammino entro il testo che proseguirà nella vita futura, in compagnia – come afferma un bellissimo midrash – di Dio stesso” (P.De Benedetti). Ciò significa, allora, che nella tradizione ebraica – in un certo senso e secondo determinati tempi – il nome di Dio è stato e sarà pronunciabile, definibile. Mai in astratto però, bensì pieno di contenuto specifico. Un universale concretum (H.Von Balthasar).

Infatti, quella forma particolare di ebraismo messianico che sarà conosciuto tra i gentili con il nome di cristianesimo arriverà a dire che Dio è “Amore” (1Gv 4,8.16). E lo stesso Gesù si rivolgerà al Padre chiamandolo Abbà: babbo, papà (Mc 14,36). – Come quando chiamo mio padre papino, babbone, papone… – chiosa una alunna. Sì, tutti vezzeggiativi che esemplificano come la relazione con Dio passi da un forse rispettoso ma spesso freddo e distaccato Voi (o Lei), ad un Tu, forse a volte eccessivamente confidente, ma sempre cordiale e caloroso. Per questo, nella luce del Messia venuto (secondo gli uni) e veniente (secondo gli altri), possiamo dire che il nome, l’essenza di Dio e dell’Uomo – sua creatura – è pronunciabile e definibile ‘se e solo se’ si riesce a farlo in maniera affettuosa, amorevole, compassionevole, consonante.

– Consonante come può esserlo la musica ascoltata dagli sportivi prima di una gara? – domandò una volta uno studente. Precisando poi che, classica o rap, house o popolare, la musica si rivela spesso essere adeguata alle emozioni provate da un atleta e quindi in grado di esaltarlo o rilassarlo in vista della competizione – in questo senso ‘silenziando’ fenomeni emotivi ‘rumorosi’ interni ed esterni. – Affettuosa come le parole ed i gesti di Weedon Scott… -, ha notato di recente un altro studente, colpito da questo commerciante californiano e dalla sua capacità di salvare da morte certa il cane-lupo ‘Zanna bianca‘ per poi curarne le ferite fisiche e psichiche causate da un’infanzia dolorosa (per la morte del padre e dei fratelli), da un’adolescenza dura (per le aggressioni subite dai coetanei) e da una prima parte della vita adulta estremamente violenta, ormai trasformato da Beauty Smith, crudele organizzatore di lotte clandestine tra cani, in una (quasi) perfetta macchina di morte. – Ma prof., anche in ‘Edward mani di forbice’ è un, anzi, una commerciante a far uscire il protagonista dal suo nascondiglio! – irrompe una studentessa sorpresa più che da questa, chissà se casuale, analogia, dalla capacità mostrata nell’averla notata. Ed effettivamente è Peggy Boggs, una rappresentante di cosmetici in cerca di clienti, a persuadere lo spaurito e pallido Edward, nascosto da quando restò orfano nella mansarda del castello, a seguirla in paese nonostante le mani taglienti…

In tal senso risuona in noi la poesia di Eugenio Montale Corno inglese (1925):

Il vento che stasera suona attento

– ricorda un forte scotere di lame –

gli strumenti dei fitti alberi e spazza

l’orizzonte di rame

dove strisce di luce si protendono

 come aquiloni al cielo che rimbomba

(Nuvole in viaggio, chiari

reami di lassù! D’alti Eldoradi

malchiuse porte!)

e il mare che scaglia a scaglia

livido, muta colore,

lancia a terra una tromba

di schiume intorte;

il vento che nasce e muore

nell’ora che lenta s’annera

suonasse te pure stasera

scordato strumento,

cuore.

Il poeta, che aveva esaltato la via negationis in Non chiederci la parola, qui esprime la speranza che qualcosa – di apparentemente violento (il vento che spazza, il cielo che rimbomba, il mare che lancia) ma aperto all’oltre (dei reami di lassù e degli alti Eldoradi) – sia in grado, nell’ora del crepuscolo, di riaccordare, e poi suonare, quello strumento che ci rende umani, e di cui spesso dimentichiamo le istruzioni per l’uso: il cuore.

Emblematico è il brano in cui Gesù si vede portare nel Tempio, all’alba, una donna colta in flagrante adulterio, con il non nascosto intento di farlo inciampare (Gv 8,1-11). Se non avesse condiviso la lapidazione della donna lo avrebbero potuto accusare di mancato rispetto della Legge di Mosè; in caso contrario, avrebbe tradito la buona notizia dell’avvicinarsi della signoria di un padre amorevole. In realtà Gesù, dopo aver praticato, da buon ebreo, il silenzio necessario non tanto per trarsi d’impaccio ma per sciogliere il nodo gordiano della violenza, riesce a pronunciare sia una parola consonante con l’atavica saggezza degli anziani che lo circondano, sia una parola giusta ma misericordiosa nei confronti della donna peccatrice. Una nuova legge scritta non più sulla pietra per dei cuori induriti, ma sulla terra per dei cuori di carne. Una legge talmente nuova che Gesù, per scriverla, da seduto che era si è dovuto inchinare ancora di più…

 

 

sergioventura@cortiledeigentili.com