Dai diamanti non nasce niente…

Se la tradizione filosofica occidentale collega la meraviglia alla conoscenza, non può sorprenderci scoprire che in Levinas, rinnovatore e critico di questa tradizione, sia presente un invito a prestare attenzione al possibile senso idolatrico di tale meraviglia:

“Lo sguardo che si eleva verso il cielo incontra allora l’intoccabile: il sacro … La distanza così colmata dallo sguardo è trascendenza. Lo sguardo non è scalata ma deferenza; è così meraviglia e culto. C’è stupore davanti alla stra-ordinaria rottura dell’altezza … Da questa trascendenza spaziale colmata dalla visione nasce l’idolatria” (Dio, la morte e il tempo).

Un correttivo a questo esito idolatrico, crediamo possa risiedere nell’approfondire il legame tra lo stupore e le piccole cose – i piccoli, come d’altronde abbiamo già osservato nelle canzoni Meraviglioso di Modugno e What a wonderful world di Amstrong, laddove il “viso del bambino” e i “bambini” stessi sono le ultime immagini evocate per rappresentare ciò che desta meraviglia:

“l’unica cosa di cui abbiamo bisogno per diventare buoni filosofi è la capacità di stupirci. Tutti i bambini piccoli ce l’hanno … Eppure, a mano a mano che crescono, questa capacità di stupirsi sembra attenuarsi … Crescendo, noi ci abituiamo al mondo così com’è … Non è così per tutti gli adulti [ma] la maggior parte di loro percepisce il mondo come un fatto ordinario (…) scontato. I filosofi rappresentano una nobile eccezione … Potremmo ben dire che un filosofo conserva la pelle delicata del bambino per tutta la vita” (J.Gaarder, Il mondo di Sofia).

Solitamente, infatti, in parte del mondo adulto e nell’autocomprensione degli adolescenti, si pensa che il processo di crescita, pur tra cadute e risalite, sia abbastanza lineare. L’infante, se non resta un puer aeternus (vittima di quella che la psicologia popolare ha chiamato la sindrome di Peter Pan), passa per l’adolescenza e, abbandonata la parte infantile di sé, diviene adulto. Ora, in realtà, gli adulti rischiano di restare o di scoprirsi immaturi – ricadendo in pericolose (se non ridicole) forme di giovanilismo – quando dimenticano o peggio rimuovono quel “bimbo interiore” che è stato sempre legato allo stupore, alla meraviglia e quindi alla conoscenza, in quanto “d’un tratto, senza farci scendere tutti i gradini del pensiero, ci trasporta nell’abisso della verità” (G.Pascoli, Il fanciullino) .

D’altronde, nella fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen, non è un bambino a rompere l’incantesimo del Potere, rivelando la nudità del re e l’orgoglio un po’ codardo dei suoi ministri e sudditi? E come non pensare – dietro suggerimento di due studenti – a Forrest Gump ed Ameliè? I protagonisti dei due film appaiono agli occhi del mondo – pagano (secondo il Leopardi dei Pensieri, LXXXIV-LXXXV) – come adulti mancati, a causa di una di(ver)sabilità fisica e psicologica – in entrambi i casi legata alla loro ‘orfananza’. Essi, invece, sono i soli adulti che riescono ad attraversare la storia – con i suoi drammi sociali e politici – e a vivere la loro esistenza – soprattutto nei momenti più dolorosi – in modo pienamente maturo ed in un certo senso ‘vincente’, proprio perché ancora provvisti dello sguardo curioso e fiducioso di un bambino.

In questa generazione di studenti, poi, provoca sempre un vero e proprio entusiasmo la citazione del cartone animato Esplorando il corpo umano. Infatti, come scrisse la studentessa ‘responsabile’ di questa scoperta:

“ogni episodio iniziava con dei bambini, stupiti per la loro malattia, che si chiedevano cosa avvenisse nel loro corpo, per poi proseguire con la spiegazione di ciò che li faceva stare male, ma effettuata in modo tale che a noi spettatori sembrasse di essere dei globuli rossi alla ricerca della disfunzione organica. Mi ha sempre colpito il fatto che tra i globuli rossi protagonisti ce ne fosse uno più anziano, posto lì per trasfusione e con il ruolo di ‘cicerone’. In una delle ultime puntate, purtroppo, questo globulo più esperto ‘muore’, ma ciò avviene perché possa nascere un nuovo globulino rosso e, probabilmente, affinché esso possa essere sostituito da un globulo rosso ormai grande e maturo per svolgere tale compito”.

Questo legame tra il bambino – il piccolo, la capacità di stupirsi e il raggiungimento della conoscenza o addirittura della salvezza – della vera maturità, sembra essere un topos della letteratura novecentesca. E’ sempre facile per gli studenti notare il ruolo che hanno i piccoli hobbit o mezzuomini nel romanzo Il Signore degli anelli, laddove la maturità degli adulti emerge durante il concilio di Elrond quando è soprattutto Gandalf il saggio a mostrarsi consapevole di quanto possa essere pericoloso affidare il potere ad un non-piccolo, indirizzando perciò gli altri grandi verso la scelta di Frodo quale portatore dell’anello.

Passando dalle lande inglesi all’agro italiano, non si può non attirare l’attenzione degli studenti sulla centralità della figura del piccolo – del “pischello” – nell’opera letteraria di Elsa Morante. Da L’isola di Arturo, passando per Il mondo salvato dai ragazzini, sino a La Storia, sembra che una sola esortazione ci venga rivolta dalla scrittrice romana: “tornate fanciulli, ma quelli veri!”. Non è un caso che nell’esergo di quest’ultima opera la Morante invochi un linguaggio non umano (divino?), legandolo al piccolo evangelico di Luca 10,21 a sua volta paragonato, nel finale del romanzo, ad un seme “che probabilmente è un fiore e non un’erbaccia”. Forse per questo Oscar Wilde afferma nel suo De profundis che è a Cristo, o alla sua anima, che “appartengono (…) l’amore per i bimbi e per i fiori, a entrambi i quali, in effetti, l’arte classica accorda ben poco spazio”…

D’altronde, anche in scritti a volte relegati dagli studenti nell’ambito di una letteratura non adulta, il messaggio è identico. La piccola Alice, caduta – sognando – nella da lei presunta tana del bianconiglio, non riuscirà ad entrare nel meraviglioso giardino (l’Eden?), intravisto alla fine del corridoio che parte da una delle porticine del vestibolo in cui si era ritrovata, sin quando non riuscirà a raggiungere il giusto equilibrio tra l’essere grande e piccola, tra il crescere e il rimpicciolirsi:

“ – questa volta voglio fare le cose con più giudizio – si disse, e per prima cosa prese la chiavettina d’oro e aprì la porta che dava sul giardino. Poi si mise a mangiucchiare il fungo (ne aveva conservato un pezzetto nella tasca) finché non fu alta circa mezzo metro: a questo punto si avviò lungo il piccolo corridoio; e quindi… si trovò finalmente nel bel giardino, fra le aiuole fiorite a colori vivaci e le fontane d’acqua fresca” (L.Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie).

Così come Il Piccolo principe, creato da Antoine Saint-Exupéry, affermerà disarmato: “bisogna sempre spiegargliele le cose ai grandi”, proprio perché “i grandi non capiscono mai niente da soli”, in quanto si concentrano spesso sulla parte più evidente – grande – di ciò che osservano, incapaci di cogliere il piccolo dettaglio nascosto – quasi invisibile o controsenso (e perciò rimosso) – da cui risalire al vero insieme (ed alla corretta interpretazione) di ciò che vedono.

Gli esempi, si capisce bene, potrebbero continuare all’infinito, soprattutto se ci soffermassimo ad indagare l’ambito musicale – alla ricerca di bambini nel tempo, ovvero di adulti con gli occhi di un bambino. Preferiamo perciò concludere, o meglio dischiudere, con il Paradiso di Dante Alighieri, letto secondo un’innovativa prospettiva offerta da Carlo Ossola:

“Dante si presenta come ‘parvol (…) oppresso di stupore’ (XXII, 1-5) … Più ancora ‘come il fantolin’ (XXIII, 121-126) … ‘Parvoletti’ saranno ancora nel XXVII del Paradiso e ‘fantolino’ e ‘balia’ appariranno nel finale del XXX canto: Dante si fa piccolo, come se applicasse a sé, entrato nella piena maturità, la massima evangelica: ‘nisi efficiamini sicut parvuli, non intrabitis in regnum caelorum’. L’ultimo canto del Paradiso sarà compimento di quelle figure, afasia “d’un fante” (XXXIII, 106-108). Eppure quello è il canto nel quale Dante ricapitola tutte le autorità dei classici di cui è erede e compimento … E’ mai possibile che quel Dante che si erge come summa ultima di tutta la classicità si presenti biologicamente come ‘parvoletto’?”

 

sergioventura@cortiledeigentili.com