Chi è il Buon Samaritano

VINCENT VAN GOGH «Il buon Samaritano» (1980).

 

da “Il Sole 24 Ore” – 20 dicembre 2015 – di Gianfranco Ravasi

Il profilo dell’uomo misericordioso evocato da Papa Francesco nell’omelia d’apertura dell’Anno santo.

Il Natale di quest’anno è incastonato nel Giubileo della misericordia: è quindi spontaneo proporre – alle soglie di questa solennità – una particolare riflessione che si affida a una delle pagine più straordinarie che l’evangelista Luca, lo scriba mansuetudinis Christi, come l’ha definito Dante nella Monarchia, ci ha lasciato nel suo che è il più lungo ma anche il più appassionato dei quattro Vangeli. Si tratta di una parabola di Gesù che Papa Francesco ha evocato proprio a suggello della sua omelia di apertura dell’Anno santo, il 18 dicembre scorso in piazza San Pietro: «Il Giubileo ci obbliga a non trascurare lo spirito emerso dal Concilio Vaticano II, quello del Samaritano, come ricordò il beato Paolo VI a conclusione del Concilio. Attraversare la Porta Santa ci impegni a fare nostra la misericordia del buon Samaritano».

Questa parabola (Luca 10,25-37) è ambientata sulla strada romana che, in una trentina di chilometri, conduce dagli 800 metri di Gerusalemme ai 300 sotto il livello del mare ove è situata la splendida oasi di Gerico. Essa ha, però, nel racconto evangelico un altro contesto storico-geografico. Davanti a Gesù, che è in marcia dalla Galilea verso Gerusalemme, si presenta un dottore della legge che gli pone un quesito: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gli impegni dell’ebreo osservante per raggiungere questa meta erano stati codificati dalla tradizione rabbinica in 613 precetti estratti dalla Bibbia, 365 negativi (quanti sono i giorni dell’anno) e 248 positivi, tanti quante erano le ossa del corpo umano secondo l’antica fisiologia. Gesù risponde citando due passi biblici, entrambi legati all’“amare”: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze» (Deuteronomio 6,5) e «Amerai il prossimo come te stesso» (Levitico 19,18).

Il dialogo ha, però, una svolta nell’ulteriore replica dello scriba: «Chi è mai il mio prossimo?». È, questo, un quesito “oggettivo” che l’ebraismo risolveva sulla base di una serie di cerchi concentrici di rapporti interpersonali ben circoscritti. Gesù risponde ricorrendo, invece, a una parabola che alla fine ha un interrogativo rilanciato allo scriba: «Chi ha agito come prossimo?». Il ribaltamento è evidente: invece di interessarsi “oggettivamente” alla definizione del prossimo, Gesù invita a comportarsi “soggettivamente” da prossimo nei confronti di chi è nella necessità e che subito vede chi gli è veramente prossimo.

Un viandante sta percorrendo la strada sopra evocata che discende lungo i monti del deserto di Giuda. All’improvviso, si ha un assalto di briganti che «lo spogliarono, lo coprirono di percosse e se ne fuggirono lasciandolo mezzo morto». Ancora nel 1931 il vescovo anglicano di Gerusalemme era stato ucciso da un gruppo di predoni proprio mentre stava recandosi su questa strada da Gerusa­ lemme a Gerico, e non è mancato chi ha ipotizzato che Gesù abbia preso spunto da un fatto contemporaneo di cronaca nera. La scena è drammatica: un corpo insanguinato, il silenzio del deserto, l’attesa di un passaggio. Ecco, finalmente, da lontano un sacerdote. Ma subito la delusione: «Passò oltre dall’altra parte» della strada. Ecco un altro passaggio, un levita. Di nuovo la delusione: anch’egli «passò oltre dall’altra parte».

C’è, però, un terzo viandante che avanza più tardi: è un “eretico” samaritano, appartenente a una comunità che nella Bibbia è chiamata «lo stupido popolo che abita in Sichem», anzi, «neppure un popolo» (Siracide 50,25-26). Eppure è solo lui che si accosta e si piega sull’ebreo ferito, suo nemico religioso e politico, per aiutarlo. Gesù non si perde nei particolari per i primi due, cercando spiegazioni per il loro atto di omissione, motivato forse da ragioni rituali (il sangue e la morte rendevano impuri chi vi entrasse in contatto e ciò era rilevante per un sacerdote e un levita ai fini delle loro funzioni e del loro statuto). È curioso notare che nel Talmud si affronta il caso inverso di un ebreo che trova per strada un samaritano e un pagano feriti: naturalmente non è tenuto a prestare soccorso (Abodah Zara 26).

Gesù spazza via il legalismo che ignora la sofferenza dell’altro e che, alla fine, uccide e si ferma sulla figura-modello del samaritano. Costui è autenticamente prossimo del sofferente senza interrogarsi su chi sia questo prossimo da aiutare. «Si fa vicino», le sue viscere si commuovono, come si dice con l’uso del verbo greco della misericordia splanchnízomai, il suo amore è operoso: fascia le ferite, vi versa vino e olio secondo i metodi del pronto soccorso antico, carica la vittima sulla sua cavalcatura, la depone solo quando giunge a uno dei caravanserragli che fungevano anche da albergo, per due volte si ripete il verbo “prendersi cura” (10,34-35), contribuisce anche alle spese successive con due denari. Il suo è un amore personale, sottolineato nell’originale evangelico greco dalla ripetizione del pronome greco autós: «Passò vicino a lui, gli fasciò le ferite, lo caricò sul suo giumento, lo condusse alla locanda e si  prese cura di lui… Prenditi cura di lui!».

Il sacerdote e il levita incarnano la rigida sacralità che separa dal prossimo; il samaritano rappresenta la misericordia e la vera religiosità che si unisce al dolore per redimerlo. È per questo che una tradizione successiva ha visto nel ritratto del samaritano un’immagine di Cristo stesso. Sulle mura di un edificio crociato diroccato, sito ora in quella stessa strada e chiamato liberamente «il khan (caravanserraglio) del Buon Samaritano», un anonimo pellegrino medievale ha inciso in latino questo graffito: «Se persino sacerdoti o leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il Buon Samaritano che avrà sempre compassione di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna».

Più attenta all’impatto che doveva avere sull’uditorio di Gesù è la trascrizione attualizzata della parabola compiuta da un esegeta moderno: «Immagina tu, bianco razzista e magari affiliato al Ku Klux Klan, tu che fai chiasso se in un locale entra un negro e non perdi l’occasione per manifestare il tuo disprezzo e la tua avversione, immagina di trovarti coinvolto in un incidente stradale su una via poco frequentata e di star lì a morire dissanguato, mentre qualche rara auto con un bianco alla guida passa e non si ferma. Immagina che ad un certo punto si trovi a passare un medico di colore e si fermi per soccorrerti…». Certo è che nella parabola appare in tutto il suo splendore il messaggio cristiano dell’amore e della misericordia che pervade molte parole di Gesù, a partire dall’appello del Discorso della Montagna: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,43-44). Per giungere fino al testamento dell’ultima sera di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: Amatevi gli uni gli altri; come io vi ho amato, così anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13,34-35).

E se lo scrittore Luigi Santucci nel suo racconto Samaritano apocrifo ha ricordato la presenza del personaggio evangelico sui «vestiboli dei lazzaretti e dei luoghi pii», il musicista Benjamin Britten ne ha riproposto la stessa figura nell’intensa Cantata misericordium op. 69, composta nel 1963 per il centenario della Croce Rossa. Ma il Buon Samaritano va oltre ogni filantropia, celebrando un amore assoluto e religioso, intrecciato con quello di Dio e per Dio. Nell’apocrifo Vangelo di Tommaso Gesù ripete: «Ama il tuo fratello come l’anima tua. Proteggilo come la pupilla dei tuoi occhi».