
10 Giu A Nicea con Costantino
A sentire la parola “ariano” per molti la reazione spontanea rimanda al programma razzista nazista e fascista che espungeva da questo blasone di nobiltà ebrei ed etnie ritenute inferiori rispetto alla tipologia pura europea connotata anche fisicamente dalla carnagione bianca, da occhi cerulei e capigliatura bionda. Questo termine, infatti, derivava dal sanscrito ariyà, “signore”, ed era stato applicato all’identità indoeuropea. “Ariano”, però, a livello storico cristiano si riferisce a un prete libico, Ario, che era stato il portabandiera di un’“eresia” cristologica, come attesta l’imprecazione manzoniana «Son diavoli, sono ariani, sono anticristi» (Promessi Sposi XXIX).
L’arena ove si svolse la battaglia teologica approdata alla condanna delle tesi di questo personaggio, per altro sostenuto da 17 vescovi, fu una città dell’attuale Turchia, Iznik, a un centinaio di km da Istanbul, nota però col nome antico di Nicea, un toponimo che fa vibrare i teologi e che è stato celebrato quest’anno a causa dell’anniversario di un concilio di 17 secoli fa. In passato mi avviai anch’io a visitare questa memoria cristiana, sostando nella chiesa di S. Sofia (oggi museo) davanti ai dipinti murali dell’abside: il ricordo, però, andava a un concilio successivo, il Niceno II, celebrato in quel tempio nel 787, a me particolarmente caro per la sua condanna all’iconoclasmo e, quindi, per il ripristino della legittimità dell’arte cristiana figurativa.
Lasciamo, però, l’attuale Iznik che si affaccia sulle sponde di un lago con la doppia cinta delle sue mura e le antiche case ottomane in legno aggettante, per risalire a quel concilio, fondamentale nella storia della fede ecclesiale, convocato dall’imperatore Costantino che si rivestiva – come nella classicità pagana – anche del manto sacrale di pontifex maximus. Egli era apparso come salvatore della cristianità dopo la terribile persecuzione di Diocleziano e Galerio e con la sua supremazia su Massenzio nell’ormai celebre battaglia di Ponte Milvio a Roma il 28 ottobre 312. Avrebbe poi avuto a disposizione anche un ideale cantore delle sue imprese, il maggior intellettuale del tempo, lo storico Eusebio vescovo di Cesarea.
Sarà lui a comporre quella Vita di Costantino che ci permette idealmente di entrare nel concilio di Nicea ove, secondo Ilario di Poitiers, si sarebbero assisi ben 318 vescovi, senza però il vescovo di Roma, il papa Silvestro. In verità, a guidarci ora per partecipare a questo evento è – tra i tanti saggi del passato – un suggestivo volume scritto a quattro mani, orientato a dimostrare «come il concilio di Nicea abbia cambiato la storia». Il testo non è solo significativo ma anche molto godibile nella lettura.
Infatti, il rigore della documentazione storico-teologica è assicurato da un raffinato studioso del cristianesimo delle origini, Giovanni Maria Vian, che è stato anche direttore dell’Osservatore Romano dal 2007 al 2018; ma nella stesura ha avuto come coautore un giornalista di livello come Gian Guido Vecchi, vaticanista del Corriere della Sera, così da rendere queste pagine quasi una narrazione coinvolgente. Si crea, così, la possibilità al lettore di essere quasi nell’aula di quel concilio, aperto il 20 maggio 325 e chiuso forse il 19 giugno, dopo l’approvazione di venti canoni. Due furono le tappe: nella prima si dichiarò eterodossa la dottrina di Ario e nella seconda si approvò quel Credo che ancora oggi viene professato ogni domenica nella liturgia (fallito fu, invece, il tentativo di un accordo per la data condivisa della Pasqua).
Il racconto di Vian-Vecchi parte, però, dall’antefatto dei secoli precedenti così da comprendere meglio la complessità della questione che era al centro di Nicea, divenuta l’estuario di un percorso, anzi, “lo spartiacque” della vicenda della cristianità, non solo a livello dogmatico ma anche epistemologico. Infatti, la formulazione teologica ricorse alla strumentazione linguistica della cultura greca ellenistica. Per questo, il capitolo intitolato appunto “spartiacque” è fondamentale nella trama del saggio e si avvale di uno schema ermeneutico duplice di matrice “laica”, usato in altri ambiti.
Da un lato, c’è la tesi di Thomas Kuhn, filosofo della scienza, secondo la quale si procede nella conoscenza attraverso paradigmi che possono essere discontinui tra loro. Questa, riguardo a Nicea, era la tesi del famoso teologo Hans Küng nel suo Cristianesimo (BUR 1999): egli vedeva in quel concilio un ribaltamento di impronta ellenistica rispetto alla dottrina cristiana precedente di approccio biblico e giudaico. D’altro lato, i nostri autori ricorrono a Karl Popper che ritiene il processo della conoscenza tendenzialmente in continuità, sia pure attraverso congetture e confutazioni successive. Vian e Vecchi optano appunto per questa seconda interpretazione della dottrina di Nicea, nella linea evolutiva della dottrina tradizionale. A margine ricordiamo che queste due visioni in contrappunto sono state adottate anche per giudicare il lascito del Concilio Vaticano II; sarà, perciò, interessante seguire anche il capitolo “Nicea dopo Nicea”.
A questo punto, però, dobbiamo in sintesi estrema (e sbrigativa) esporre la tesi di Ario, oggetto della contesa. Egli per salvaguardare l’unicità e la trascendenza di Dio, aveva escluso Cristo dalla divinità, declassandolo a creatura, sia pure con uno statuto e un primato esclusivi. Ben diversa sarà l’ortodossia cristologica nicena che – come professa il Credo nella sua formulazione più ampia – riconosce «Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre». È la norma che ancor oggi, a distanza di 1700 anni, regola la fede della cristianità.