
03 Giu Un profeta innamorato
Tutto era iniziato con un’esperienza a prima vista sconcertante. Il profeta aveva sposato una prostituta, Gomer bat-Diblaim. È difficile decidere se si trattasse di una meretrice in senso stretto o piuttosto se, sotto quel termine spregiativo, si celasse l’allusione a una sacerdotessa dei culti pagani di indole sessuale in uso tra gli indigeni della Terra Santa, i Cananei. Nella tradizione giudaica cristiana si è rigettato con sdegno il realismo di questo connubio, ricorrendo a interpretazioni allegorico-metaforiche. Certo è che Osea, vissuto nell’VIII sec a. C., narra per due volte questa vicenda autobiografica in apertura al suo libro profetico.
La donna gli aveva dato due figli e una figlia e poi aveva abbandonato la famiglia. Il profeta, nel capitolo 2 del suo testo, aveva, così, affidato alla poesia i suoi sentimenti di innamorato tradito. Da un lato, avrebbe voluto divorziare da lei, facendola denunciare dai suoi figli e spogliare nuda nella pubblica piazza, togliendole la dignità dell’abito nuziale e allontanandola per sempre. D’altro lato, però, questa detestazione veemente non riusciva a spegnere, anzi, accendeva sempre più il sottile, invincibile amore che per questa donna Osea provava costantemente.
Ed ecco, allora, che il soliloquio si trasformava in una sorta di sogno. Era la speranza che Gomer, abbandonata e delusa dai suoi amanti, «ritornasse» sulla strada di casa (e il verbo «ritornare» in ebraico significa anche «convertirsi»): «Tornerò da mio marito! Con lui ero ben più felice di adesso!» (2,9). Il profeta immaginava già la scena di quel giorno tanto atteso: la riabbraccerà, la corteggerà, celebrerà con lei di nuovo il fidanzamento, le nozze e la luna di miele, con un viaggio nuziale nei luoghi della loro giovinezza. È, questa, purtroppo una storia vissuta da molte coppie e destinata – forse come accadde anche a Osea – a restare un sogno.
Perché, allora, il profeta ce l’ha narrata? La risposta è facile. In filigrana alla sua vicenda autobiografica c’era la possibilità di delineare la parabola del comportamento di Israele nei confronti del Signore. Nel deserto, infatti, si era consumato il tradimento idolatrico del vitello d’oro, in realtà il toro sacro fecondatore. Ma Dio non si era rassegnato e aveva voluto trasformare quel luogo solitario nella sede dell’intimità in cui svelare di nuovo al popolo ebraico la sua parola e condurlo con amore verso la meta della libertà.
A chi vorrà seguire l’intero libro del profeta suggeriamo un essenziale, raffinato e trasparente commento elaborato da un monaco di Bosa, Alberto Mello. Egli è consapevole che il testo originale ebraico a noi giunto (2383 parole) è arduo, irto di arcaismi, di vocaboli rari, di punti lesionati. Eppure riesce a farne balenare l’originalità anche nelle altre pagine oltre quelle finora descritte e lo fa anche attraverso la sua forte competenza nell’ambito dell’esegesi tradizionale giudaica dall’approccio spesso libero.
Esse, comunque, rappresentano l’aspetto originale e creativo di Osea che parte proprio dalla citata mitologia dei Cananei secondo la quale la terra è il grembo della grande madre che anela al seme del dio Baal, il capo del pantheon di quella religiosità, ossia alla pioggia fecondatrice. Scrive Mello: «Osea ha il coraggio di fare proprio questo linguaggio erotico e questa mentalità naturalistica per contestarli dall’interno, per smontarli pezzo per pezzo». Siamo, quindi, in presenza di un atto di contestualizzazione (il profeta sarebbe indecifrabile nel suo messaggio senza questo sfondo culturale e religioso) e di demitizzazione.
In questa linea Osea – sulla base della sua esperienza autobiografica e delle coordinate cananee sopra descritte – è stato l’antesignano di una reinterpretazione della categoria biblica “alleanza” destinata a illustrare il legame tra Dio e il suo popolo. Alla tipologia più “giuridica” presente nel racconto dell’esperienza del Sinai si sostituisce, nei vari profeti successivi, Isaia, Geremia, Ezechiele, quella più personale e intima dell’amore e del dialogo nuziale.
Nel libro di Osea, però, ci si imbatte in altri temi tra i quali spicca la formulazione lapidaria divina di un principio caro ai profeti e consono alla predicazione di Gesù che la citerà ben due volte: «Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (6,6). Nel Vangelo di Matteo Cristo ripete la formula così: «Andate e imparate che cosa significhi: Io voglio misericordia e non sacrificio… Se aveste compreso che cosa significhi: Voglio misericordia e non sacrifici!» (Matteo 9,13;12,7). Mello, poi, l’adotta come titolo del suo commento.
Gli esegeti sottolineano che si tratta non di una negazione assoluta – per cui il culto è legato in favore della sola opzione esistenziale morale – ma dialettica: «Voglio l’amore e non solo il sacrificio», fermo restando che il primato va all’amore-misericordia («La conoscenza-amore vale più degli olocausti»). È il grande appello a coniugare rito e vita, preghiera e carità, spiritualità ed etica sociale, altrimenti la fede si trasforma in ipocrisia (si legga la sferzante prima pagina del profeta Isaia). Sull’asserto oseano rimandiamo all’intenso commento che Mello sviluppa ricorrendo non solo alla riflessione contestuale e alla tradizione giudaica, ma anche a un luminoso frammento dei Pensieri di Pascal (n.793) e a una meditazione suggestiva del filosofo Jean-Luc Marion sull’“ultima e suprema virtù” che è la carità (in Prolégomènes à la charité).