Una voce profetica nel deserto

Da Il Sole 24 Ore – 28 maggio 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il Cardinal Ravasi racconta la vita di Don Milani, il sacerdote che ha scosso la Chiesa grazie al suo amore per la persona umana, soprattutto se emarginata.

All’anagrafe fiorentina era stato registrato come Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, nato il 27 maggio 1923 da una famiglia borghese e intellettuale di matrice ebraica. Negli archivi parrocchiali apparirà come battezzato solo dieci anni dopo, successivamente a una lunga parentesi milanese dei genitori, che si erano trasferiti nel capoluogo lombardo nel 1930, ove il figlio avrebbe seguito tutto il cursus scolastico fino all’Accademia di Brera. Lorenzo ritornerà con loro a Firenze nel 1943 e fu là che si aprì il suo percorso spirituale che lo condusse al sacerdozio il 13 luglio 1947. A questo punto sciogliamo del tutto l’enigma: stiamo parlando di don Lorenzo Milani, relegato dall’incomprensione ecclesiastica nel Mugello, a Barbiana, modesta frazione del comune di Vicchio che diverrà nota proprio per la genialità e la fede di questo prete. Là rimase fino alle soglie della morte, che avverrà a Firenze per grave malattia nel 1967.

La sua è stata una voce profetica che risuonava nel deserto, scuoteva le coscienze, anticipava i tempi collocandosi nei crocevia più roventi della società attraverso i suoi scritti, a partire dalle Esperienze pastorali del 1958, passando a L’obbedienza non è più una virtù per approdare all’indimenticabile dittico epistolare della Lettera a una professoressa (1967) su un originalissimo progetto educativo e della Lettera ai cappellani militari (1965) sull’obiezione di coscienza che gli costò una condanna per apologia di reato postuma, perché la sentenza fu pronunciata a un anno dalla sua morte avvenuta nel 1967. Sempre fermo e sereno, dichiarava ai suoi accusatori: «Dove è scritto che il prete debba farsi volere bene? A Gesù o non è riuscito o non è importato».

Ai ragazzi della scuola di Barbiana confessava nel suo testamento: «Ho voluto più bene a voi che a Dio; ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto sul suo conto». Il suo amore per la persona umana, soprattutto se povera ed emarginata, era totale: «Il cuore dell’uomo è qualcosa che i libri non sanno leggere né catalogare. Un’anima non si muta con una parola», scriveva a quella “professoressa” così rigida nel suo ottuso sapere e inesorabile nel suo giudizio su un’esperienza didattica creativa. Lapidario era don Lorenzo anche nell’ammonire che il «massimo della diseguaglianza è fare parti uguali tra diseguali», convinto com’era che «un atto coerente isolato è la più grande incoerenza» e che «non dobbiamo avere paura di sporcarci le mani. A che servirà averle pulite se le avremo tenute in tasca?».

La sua fede era appassionata: «Se dicessi che credo in Dio, direi troppo poco perché gli voglio bene. E volere bene a uno è qualcosa di più che credere nella sua esistenza». Pur incompreso, come si diceva, dalle autorità ecclesiastiche, rimase sempre fedele alla Chiesa. Un suo compagno di seminario che sarebbe poi divenuto proprio arcivescovo di Firenze, il cardinale Silvano Piovanelli, anni fa mi confidava che, a quanti chiedevano a don Milani perché non lasciasse una Chiesa così dura verso di lui, rispondeva: «E dove mai troverò chi mi perdona i peccati?», rivelando anche un temperamento da asceta, consapevole della fragilità umana e della necessità del perdono divino.

La sua opera principale a livello di elaborazione della sua esperienza è stata certamente il volume citato Esperienze pastorali, le cui righe sono già stilisticamente di un’essenzialità assoluta e programmatica, come egli stesso affermava in una sua lettera: «Lo stare per mesi su una frase sola togliendo via tutto quello che si può togliere», spogliando la verità da ogni paludamento retorico e dal manto dorato dell’ipocrisia. Infatti, «siamo in un mondo in agonia che Dio forse sta accecando per castigarlo per aver troppo e troppo male usato l’intelletto, oppure di non averne fatto parte agli infelici».

E alla fine il bilancio del suo impegno di pastore e di educatore era stato sorprendente: «Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me, son io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere». Alla base, infatti, del suo insegnamento c’era soprattutto la ricerca condotta in comune tra insegnanti e discepoli. Il magister (da magis, più) si trasformava sempre in minister (da minus, meno) che procede spalla a spalla con l’altro. È ciò che avrebbe ribadito una figura lontana da don Lorenzo in tutti i sensi come Roland Barthes quando riconosceva che «vi è un’età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui si insegna ciò che non si sa, e questo si chiama cercare».

In questo che non è un ritratto ma solo un’evocazione simpatetica di un sacerdote e testimone dalla storia tormentata e gloriosa, nel centenario della sua nascita, è stato naturale lasciare soprattutto a lui la parola, come abbiamo fatto intarsiando il nostro testo con l’eco della sua voce. La conclusione, però, dovrebbe essere affidata a un’immagine del 20 giugno 2017: papa Francesco in piedi, a capo chino e in silenzio, davanti alla tomba di don Milani in quel piccolo e semplice camposanto di campagna. Enzo Biagi aveva scritto: «È sepolto nel cimitero di Barbiana, sperduto e vuoto paese abitato dagli spiriti. Ma don Lorenzo parla ancora».