
22 Apr Una memoria personale per papa Francesco
da Il Sole 24 Ore – 22 aprile 2025 – di Gianfranco Ravasi.
È un episodio molto personale della mia vita segnato, però, da un significato emblematico, al punto tale che è stato il mio interlocutore, il vero protagonista, papa Francesco, a rievocarlo a più riprese non solo con me ma anche in alcune interviste autobiografiche. Io non avevo mai incontrato il cardinale Jorge Bergoglio prima dei giorni del Conclave. Ne avevo sentito parlare occasionalmente e conoscevo il suo profilo vagamente. Fu soltanto in quel piovoso pomeriggio di mercoledì 13 marzo 2013 che ci trovammo casualmente insieme da soli. Lui stava attraversando la sontuosa Sala Ducale vaticana con la sua scenografia barocca: fu lì che ci incrociammo e ci fermammo a parlare, procedendo e passeggiando poi nella successiva imponente Sala Regia. Da lì saremmo entrati nella Cappella Sistina, ove insieme agli altri cardinali elettori partecipavamo al Conclave.
In quell’occasione fu lui stesso a rievocare il filo personale che ci univa e che mi era ignoto. L’incontro implicito era avvenuto proprio a Buenos Aires attraverso le mie pubblicazioni, due in particolare, un «duplice commento» al lezionario liturgico domenicale e soprattutto il vasto commentario che nel 1979 avevo elaborato su uno dei libri più sconvolgenti e misteriosi della Bibbia, quello di Giobbe. Erano quasi mille pagine, dedicate alle 8343 parole ebraiche di quel poema, al suo linguaggio rovente e soprattutto al suo enigmatico significato ultimo, che ruota attorno allo scandalo della sofferenza. Si può, perciò, intuire l’interesse e la sintonia tematica dell’allora arcivescovo argentino per questo libro biblico. Egli aveva, infatti, tenuto nella sua diocesi un intero corso su quest’opera così alta, drammatica e teologica, capace di dare voce al respiro di dolore che sale incessantemente dalla terra al cielo.
C’eravamo così attardati in queste memorie comuni da non accorgerci che ormai tutti i cardinali elettori erano pronti nella Cappella Sistina per la votazione. Venne, allora, un cerimoniere a sollecitarci a gran voce e papa Francesco ricorderà sempre che quel ritardo era quasi una pulsione interiore che quasi lo tratteneva dal destino che lo attendeva. Infatti poche ore dopo in quel pomeriggio, l’arcivescovo di Buenos Aires sarebbe divenuto la guida della Chiesa universale.
A questo punto è arduo rientrare nella dimensione più “oggettiva” e ricomporre un ritratto di papa Francesco e dei densi, intensi, e ormai storici anni del suo pontificato. Un vero e proprio mare di parole sono state e saranno scritte su di lui e sulle sue scelte pastorali che ebbero un impatto veramente planetario. Altrettanto immenso è l’orizzonte dei suoi messaggi e delle sue azioni spesso scandite da una potente carica simbolica, per cui è un’impresa impossibile riassumere la sua figura e la sua opera in modo rapido e sapido, come lui invece sapeva fare nella sua comunicazione.
Contrariamente all’opinione dominante, guardando dall’alto il panorama esteso del suo ministero petrino, si scopre un solido anche se spontaneo impianto teologico. È sostanzialmente quello dello stesso dire e agire di Cristo: basterebbe leggere il “Discorso della montagna”. In questa linea citiamo alcuni snodi del pontificato di Francesco. L’Esortazione di apertura Evangelii gaudium dello stesso anno dell’elezione, 2013, ne è la chiave di volta, con l’esaltazione dell’«annuncio del Vangelo» e la relativa «dimensione sociale dell’evangelizzazione», in «ascolto del popolo», soprattutto quello relegato nelle “periferie” delle città, della società, della storia.
Un altro snodo decisivo è stata l’enciclica Laudato si’ del 2015 che parte dal «Vangelo della creazione» – si pensi solo alle parabole di Cristo che sbocciano dalla realtà concreta del creato per ascendere verso il regno di Dio – e approda alla complessità di un’«ecologia integrale» per la casa comune offerta dal Creatore all’intera umanità. Capitale, poi, è stata l’altra enciclica, Fratelli tutti del 2020, ove batte il cuore di Francesco sulla scia di quel Cristo che aveva trasferito gli “ultimi” a essere “primi” nel suo progetto di salvezza.
In quelle pagine molto “personali” e appassionate, alle «ombre di un mondo chiuso in sé stesso», come ci è proposto in modo incessante ai nostri giorni, si opponeva l’impegno di «generare un mondo aperto» attraverso un dialogo interculturale e interreligioso. Questi due aggettivi saranno costanti nel procedere del papa lungo le strade anche geografiche (coi suoi viaggi apostolici) del nostro pianeta. Per esemplificare, basterebbe solo rimandare al documento di Abu Dhabi firmato con l’imam del Cairo e con altri rappresentanti delle religioni, alla sterminata raggiera dei suoi incontri, al dialogo col mondo della cultura (si pensi solo alle Lettere apostoliche «sul ruolo della letteratura nella formazione» o sulla poesia o ai discorsi per gli artisti nella cappella Sistina e alla Biennale di Venezia).
Incessante è stato sempre, in questa luce dialogica, il grido per la pace contro la guerra che attinge al cuore evangelico dell’amore fraterno, così come costante è stato lo sforzo di tenere in armonia la pluralità della stessa Chiesa attraverso la ricerca di una “sinodalità”, che etimologicamente significa “camminare insieme” lungo la stessa via, pur con tappe, ritmi e soste diverse. Il suo, in sintesi, è il programma proclamato da una pagina celebre del quarto Vangelo, l’inno di apertura che ha come apice l’affermazione: «Il Verbo divenne carne» (Giovanni 1,14), ossia il divino nell’umano. La trascendenza della verità e dell’amore non decolla dalla realtà verso cieli mitici e mistici, ma si incarna nella storia e nella quotidianità.
Tanto altro si dovrebbe aggiungere per un ritratto di papa Francesco che non sia solo questo nostro bozzetto scarno e allusivo. A suggello di questa rievocazione semplificata vorrei ritornare ancora a una memoria personale, tra i tanti ricordi possibili. Nel 1965 Bergoglio insegnava in una scuola superiore dei Gesuiti, a Santa Fé, ed ebbe l’intuizione di invitare Jorge Luis Borges a raggiungerlo in quel collegio per tenere una settimana di lezione ai suoi alunni. Qualche anno fa condussi da papa Francesco Maria Kodama, la vedova del grande scrittore argentino, con la quale avevo spesso dialogato proprio sul tema della spiritualità di Borges.
Pochi giorni dopo ricevetti dal Papa – che in questi anni ogni settimana mi ha sempre inviato libri d’arte o di letteratura a lui offerti perché li esaminassi – l’edizione integrale in spagnolo dell’opera dello scrittore e una foto incorniciata, con una nota autografa esplicativa del pontefice sul retro: era Bergoglio professore che stava dialogando frontalmente con Borges in quella settimana a Santa Fé. Lascerei, allora, la parola finale a papa Francesco che ha, tra l’altro, coniato un suo linguaggio originale: chi non conosce «la guerra mondiale a pezzi», «l’odore delle pecore», «la Chiesa in uscita» e «ospedale da campo», la «guerra è sempre una sconfitta» e così via?
Nella lettera sopra menzionata «sul ruolo della letteratura» il Pontefice citava proprio Borges durante le lezioni agli studenti: «Lo scrittore spiegava loro che, entrando in contatto con la letteratura e un testo vivo, in ogni caso avrebbero ascoltato la voce di qualcuno. Ecco una definizione di letteratura che mi piace molto: ascoltare la voce dell’altro. È pericoloso smettere di ascoltare la voce dell’altro che ci interpella! Si cade nell’autoisolamento, si accede a una sorta di sordità spirituale, la quale incide negativamente pure sul rapporto con noi stessi e sul rapporto con Dio».