
19 Mag Padre Teilhard de Chardin
da Il Sole 24 Ore – 18 maggio 2025 – di Gianfranco Ravasi.
A distanza ormai di decenni e dalla mia attuale posizione ecclesiale posso confessare una sorta di trasgressione. Nel 1962 l’allora S. Uffizio aveva emanato un Monitum contro le teorie del gesuita paleontologo (ma anche teologo e mistico) Pierre Teilhard de Chardin, nato nell’Alvernia francese nel 1881 e morto a New York nel giorno di Pasqua del 1955. Allora ero studente di teologia all’Università Gregoriana di Roma e la mia curiosità era quella di leggere proprio le opere proibite del gesuita. Al di là della folta produzione saggistica scientifica e divulgativa, egli era autore di soli due libri, pubblicati postumi, Le milieu divin, elaborato tra il 1926 e il 1927, e Le phénomène humain (1938-40).
Essi erano stati editi da Seuil rispettivamente nel 1957 e nel 1955. Mi avventurai, così, nell’acquisto, faticoso perché legato a un mercato estero e oneroso per l’economia di uno studente di allora. Ci riuscii e, con buona pace del S. Uffizio, lessi i testi con una grande passione un po’ acritica, anche perché lo stile era affascinante, persino con picchi letterari alti. Mai avrei immaginato che un teologo tutt’altro che corrivo come Joseph Ratzinger, anni dopo, avrebbe introdotto una delle concezioni teilhardiane all’interno di una riflessione sull’Eucaristia, ma soprattutto che papa Francesco nel suo viaggio in Mongolia nel settembre 2023 avrebbe compiuto un passo ulteriore.
Nel deserto di Odos, dove p. Teilhard – che da paleontologo conduceva ricerche – aveva composto la celebre poesia orante Messa sul mondo (Queriniana 2019 in V edizione), il pontefice aveva dichiarato citando il gesuita: «Questo sacerdote, spesso incompreso, aveva intuito che “l’Eucaristia è sempre celebrata, in un certo senso, sull’altare del mondo” ed è “il centro vitale dell’universo, il centro traboccante di amore e di vita inesauribile”, anche in un tempo come il nostro di tensioni e di guerre». In italiano abbiamo calcolato almeno 36 versioni dei testi teilhardiani, a partire dalle sue due opere maggiori citate, tradotte inizialmente dal “laico” Saggiatore e, successivamente, da un’editrice cattolica sempre coraggiosa, rigorosa e creativa come la Queriniana di Brescia (entrambe le opere sono dal 2020 in VII edizione).
In questa linea innovativa rispetto all’ormai lontana rigidità del passato, ecco apparire ora un’impeccabile e ricca biografia di p. Teilhard pubblicata nientemeno che dall’editrice ufficiale del Vaticano. A comporla è una studiosa di storia contemporanea, Mercè Prats, che ha scavato in profondità e con un’impressionante acribia negli archivi della Fondazione che reca il nome del gesuita. Eppure il suo ritratto, affidato a una documentazione impeccabile, è delineato in modo limpido e avvincente così da far emergere non solo la straordinaria statura del personaggio ma – come scrive nella sua prefazione il card. José Tolentino de Mendonça – rivelando anche la capacità del pensiero del gesuita di intercettare le sfide del nostro tempo.
Così, egli anticipa molte istanze della successiva ricerca tecnologica intrecciandole, però, con la tensione verso la spiritualità; il suo interesse per il dinamismo evolutivo della materia fa balenare già le attuali interrogazioni sulla transizione ecologica; la sua antropologia unitaria anticipa la prospettiva filosofico-teologica contemporanea incline a superare le dicotomie surrettizie; anche se forse discutibile nel metodo, rilevante è il suo programma di confronto tra fede e scienza. In quest’ultimo dibattito egli era entrato – sia pure con la discrezione e la finezza della sua personalità (emblematico è il ritratto fotografico di copertina) – con un vero colpo di maglio epistemologico.
Volatilizzando i muri che separavano le due ricerche, la scientifica e la teologica, egli attraverso la concezione evolutiva aveva isolato il dinamismo nell’universo teso e proteso verso un culmine terminale, da lui definito come “punto omega”. Là si sarebbero incrociati e pacificati in pienezza sia la realtà cosmica, sia quella antropologica segnata dalla coscienza, sia la stessa trascendenza. La paleontologia, l’antropologia e la teologia si placavano in quel punto ultimo, tipizzato nella cristologia ove il Verbo divino assume in sé la creazione umana e cosmica. Emozionanti a livello anche letterario sono testi come la citata “Messa sul mondo” o l’“Inno dell’Universo”.
Come egli sia approdato a questo esito, che necessariamente abbiamo semplificato e schematizzato, è da scoprire attraverso la diacronia biografica della Prats. Essa parte dall’adolescenza e dall’ingresso nella compagnia di Gesù (il primo suo articolo è del 1905 su una rivista gesuita e s’inoltra già nelle «leggi, teorie e principi della fisica»), procede poi di tappa in tappa con i lunghi soggiorni in Cina, le sue esplorazione paleoantropologiche, le fiere opposizioni non solo romane, fino agli ultimi anni americani. Al netto delle grandi intuizioni, degli scenari vertiginosi, delle investigazioni scientifiche rigorose, rimane la riserva sul suo approccio olistico.
Egli aveva gettato scompiglio nei due «magisteri non sovrapponibili», per dirla alla Stephen Gould, intuendo che in realtà entrambi esigono un’interlocuzione necessaria reciproca riferendosi l’uno (la scienza) al fenomeno e l’altro (la filosofia-teologia) al fondamento dell’essere. Tuttavia la compattezza unitaria finale da lui proposta aveva scontentato i teologi e indispettito gli scienziati, creando un’impressione di concordismo. Eppure, la sua visione ancora oggi emoziona, come dimostrano le pagine di Mercè Prats e come devo testimoniare a distanza di sessant’anni da quella mia giovanile trasgressione.