Sulle tracce del vero volto d’Adamo

da Il Sole 24 Ore – 31 ottobre 2021 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinal Ravasi parla di Christoph Böttigheimer e della sua ricerca attorno alla figura umana.

«Adamo, dove sei?». La celebre interpellanza del Creatore agli esordi della Bibbia e della stessa storia umana, potrebbe oggi essere trascritta con un «Adamo, chi sei?», un interrogativo destinato a trafiggere l’indifferenza amorfa o la fluidità dell’antropologia attuale. Una visione ormai secolarizzata ma anche amorale per la quale varrebbe la ripresa satirica della scena del paradiso terrestre suggerita da Jacques Prévert: «E Dio, sorprendendo Adamo ed Eva, disse: Continuate, ve ne prego, non disturbatevi di me, fate come se io non esistessi».

Proprio in questa nebbia attuale, nella quale tutte le figure sono amorfe o polimorfe, si introducono spesso riflessioni che cercano di diradare la foschia e stagliare alcune tipologie. È ciò che fanno molti pensatori di diversa estrazione, intercettati anche da alcuni teologi, capaci di creare intersezioni coi linguaggi e i sistemi “laici”. Ne scegliamo ora uno tra i molti, forse meno noto, ma che proponiamo proprio per questa sua capacità dialogica inter- e transculturale. Si tratta di un docente dell’Università tedesca di Eichstätt-Ingolstadt (Baviera), Christoph Böttigheimer, classe 1960.

La sua ricerca si muove sostanzialmente secondo due traiettorie consecutive. La prima è scandita da tre categorie antropologiche capitali. Innanzitutto la «persona», vocabolo forse di matrice fenicia col significato di «maschera», semantica accolta dal latino e se si vuole anche dal prósopon greco, letteralmente «ciò che si può vedere», quindi il volto e l’oggetto visibile della creatura umana, una maschera che cela l’hypóstasis, «ciò che sta sotto», la «sostanza» appunto. Certo è che il profilo primario della persona è contenuto nella relazione con l’altro, ed è così che nasce la seconda dimensione centrale del saggio del teologo tedesco, «il riconoscimento».

Egli lo delinea attraverso il contributo di una legione di pensatori, a partire da Hegel per giungere a Ricoeur, Todorov, Taylor e soprattutto al filosofo sociale Axel Honneth. Attraverso il riconoscimento reciproco si alimenta l’autentica relazione interpersonale comunitaria, l’intersoggettività, l’amore stesso e, a causa del limite umano, anche il conflitto, quando l’identitarismo egoistico «riconosce» nell’altro un ostacolo o un pericolo. Solo col riconoscimento si compie la «formazione della personalità», la terza categoria di taglio più psicologico, che «comprende tutte le peculiarità caratteristiche della natura di una persona che la distinguono nella sua unicità inconfondibile e nella sua individualità insostituibile».

A questo punto entra in azione la seconda traiettoria dello studio di Böttigheimer, quella strettamente teologica ove le precedenti categorie vengono applicate al registro trascendente. La relazione interpersonale, allora, si apre verticalmente a Dio del quale l’uomo e la donna sono «immagine» (Genesi 1,27), il cui prototipo è Gesù Cristo «immagine del Dio invisibile» (Colossesi 1,15). Questo «riconoscimento» da parte di Dio coinvolge innanzitutto la salvezza, che è appunto, un abbraccio interpersonale tra il Creatore e la creatura, attuato nella storia, cioè nell’edificazione del regno di Dio a cui partecipano sia Dio, sia il figlio umano di Dio attraverso la fede e le opere.

Quando, però, la libertà umana traligna originando un «riconoscimento» aggressivo – teologicamente parlando, col peccato – ecco che scatta l’altra dimensione della salvezza che è la redenzione. E qui entrano in scena temi fondamentali come il sacrificio, l’espiazione e la figura sacrificale di Cristo nella sua morte, atto di condivisione radicale e solidale con i peccatori. Naturalmente, trattandosi di prospettive cristologiche che hanno sollecitato una secolare riflessione sulla teologia, l’analisi si fa fitta di ramificazioni che, però, convergono alla fine sul tronco centrale del «riconoscimento» da parte di Dio nei confronti della sua creatura in tutto il suo percorso personale infame o glorioso, asimmetrico o convergente con lui e con il prossimo.

A questo punto, suggeriamo ai nostri lettori, che amano inerpicarsi anche sui sentieri d’altura della speculazione filosofica e teologica, una sosta su una sorta di pianoro verdeggiante con uno sguardo che abbraccia l’orizzonte, in silenzio e solitudine. Questo può essere fatto – rimanendo pur sempre nell’ambito dell’antropologia – con un nuovo delizioso volumetto di uno dei nostri massimi psichiatri, dotato però di una straordinaria temperie umanistica (basti solo seguire il palinsesto delle sue citazioni), Eugenio Borgna. Il testo s’intitola appunto In dialogo con la solitudine ed è un gioiello di meditazioni profane e religiose, profonde e trasparenti, realistiche e trasognate.

Questi ossimori non sono retorici perché chi leggerà quelle paginette si troverà nella freschezza incantata della solitudine, vera dieta dell’anima, ma anche nella gelida stanza dell’isolamento che è invece il campo di gioco di Satana, come scriveva Nabokov. Vivrà la suprema esperienza dei «fiori bianchi del gelsomino» di Etty Hillesum, o i «frammenti di cielo» di Virginia Woolf, ma anche l’isolamento/solitudine del bambino, dell’adolescente, dell’anziano, dell’infermo, della casa di riposo, del malato psichiatrico, dell’autismo. A dominare, però, in questo scritto è il fascino della vera solitudine che è silenzio e parola, è festa e catarsi, è ascolto dell’infinito, è poesia (il «passero solitario» leopardiano), è alba e tramonto… Questa, comunque non è una recensione ma l’invito ad entrare in dialogo silenzioso e pur intenso con l’autore.

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