
18 Gen Sguardi sulla Lectio di Ratisbona
Alle radici dell’educazione al dialogo interculturale e interreligioso.
Lo speciale “Quel che resta di Ratisbona” è a cura di Gabriele Palasciano. Un testo di
Interessandomi di educazione interculturale, avverto l’evidente attualità pur a oltre dieci anni di distanza della lectio magistralis su Fede e Ragione tenuta da papa Benedetto XVI a Regensburg (Ratisbona) nel settembre 2006. Giustifico la mia affermazione con le seguenti sintetiche riflessioni.
La lettura del Discorso, che come tutti i testi dell’autore manifesta profondità e chiarezza, porta subito ad evidenziare, prima ancora della riflessione teorica sui concetti che riguardano strettamente le relazioni interculturali e interreligiose, i significativi riferimenti alle ormai lontane esperienze del “professor Ratzinger” all’interno dello stesso mondo accademico che lo accoglie, a quella “vecchia università” che egli sembra ricordare con un po’ di nostalgia ma, soprattutto, per la qualità della sua proposta culturale, scientifica e, in particolare, esistenziale. Il papa vuole sottolineare, come efficace premessa esperienziale alle successive indicazioni teoriche, come quell’ambiente scientifico e culturale fosse intimamente costituito e fondato proprio sulla dimensione dialogica, sull’attitudine all’incontro, sul «contatto molto diretto con gli studenti» e «tra i professori». Noi sappiamo bene quanto siano complessi, nei contesti educativi, scolastici, accademici, sia i rapporti definiti “a-simmetrici” (tra insegnanti e studenti) sia quelli “simmetrici”, tra pari. Soprattutto la qualità dell’incontro tra i docenti e, proprio a partire da questa base, la conseguente fecondità delle trame interdisciplinari che si sviluppano dall’intelligente condivisione culturale e professionale («coesione interiore nel cosmo della ragione»), vengono nel Discorso ricordate come elementi caratteristici e davvero qualificanti dello stile di vita universitario e della «comune responsabilità per il retto uso della ragione».
Sembra che, con questo, Benedetto XVI intenda sottolineare l’importanza della genesi esperienziale delle idee e che, in particolare per la complessa tematica del dialogo, tanto si potrebbe fare se – ancor prima di confrontarci su disquisizioni di carattere meramente teorico – ci impegnassimo davvero per attuare l’esperienza difficile e complessa dell’incontro delle diversità a partire dalle sfide concrete connesse alla quotidianità, all’ambito sociale del lavoro e dell’esercizio delle nostre professioni, realizzando insomma – proprio come quel nucleo di docenti universitari in tempi ormai lontani – un contesto di reciproca attenzione, di reciproco rispetto, di condivisione progettuale su un solido fondamento di solidarietà e di fraternità. Per certi versi, è allo “spirito di Assisi” che l’introduzione del Discorso di Ratisbona sembra rinviare, seppure implicitamente, lasciando anche intendere che la comprensione intima delle cose non è appannaggio delle presuntuose oligarchie di cattedre riservate ma è pane quotidiano dei poveri e degli umili, che dalla loro postazione colgono e dialogano con quella Realtà che sta al di là delle cose, pur attraverso le cose.
Proprio a partire da tali rilievi si apre la coerente formulazione di alcune altre idee-forti che alludono innanzi tutto alla necessità di affrontare criticamente «le minacce che emergono» e superare ataviche indisponibilità, barriere comunicative e relazionali (Ferdinand Ebner le definirebbe alla stregua di una vera e propria «muraglia cinese»), come la rigida difesa autoreferenziale e conformistica di una propria visione unilaterale, del proprio giardino culturale, come il preoccupante fondamentalismo e la giustificazione di una presunzione di superiorità che genera violenza, oltranzismo, imposizione forzata. Chi non ha orecchi per ascoltare è immediatamente predisposto al fraintendimento della parola e dell’agire altrui, e questo obnubilamento identitario è del tutto funzionale alla negazione, anche totale, dell’alterità.
In questa prospettiva, che richiama alla necessità dello sconfinamento e allargamento della propria dimora identitaria, la ragione può umilmente aprirsi e ospitare perfino quelle domande, troppo spesso escluse o eluse, che riguardano e rimandano al trascendente, risvegliando le attutudini umane, non di rado anestetizzate, a cogliere voci e richiami provenienti da lontano, dalle profondità e dalle altezze. Soltanto questa capacità di oltrepassamento può consentire l’incontro tra scienza e fede, tra il sapere descrittivo di un mondo soltanto verificabile («…la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento») e l’intuizione di ciò che è invisibile agli occhi, ma che lo sguardo della ricerca autentica sa davvero percepire e comprendere. È il tipico oltrepassamento del vero esploratore, esposto a nuovi mondi, a nuovi incontri, a nuovi misteri, a nuovi abbracci interculturali. Abbracci che incontrano e includono altre storie, pur sapendole “altre” e rispettandole come tali. Abbracci che incontrano e includono perfino altre visioni ed esperienze di Dio: un Dio che, tutt’altro che ostile alla diversità delle denominazioni con le quali viene definito, è sempre “Oltre” e “Altro” e oltrepassa perciò qualsiasi ansia e presunzione di possederlo. Va comunque detto che l’attitudine dell’esploratore non implica smemoratezza, non significa dimenticare il proprio indirizzo. Fuori di metafora, il dialogo – a tutti i livelli – non comporta svendita della memoria, travestimento o tradimento della propria identità e del proprio bagaglio valoriale. Al contrario: l’incontro autentico con l’altro, pur implicando il decentramento, avviene nella piena assunzione della propria e dell’altrui alterità, cioè della distanza identitaria e valoriale che ci costituisce e nel rispetto della quale si possono riconoscere, evidenziare, condividere alleanze, co-abitazioni culturali, reali affinità a tanti livelli.
Non possiamo oscurare e far tacere il nostro nome, il Logos che ci definisce, ci provoca, ci orienta lanciandoci “oltre” proprio perché viene prima, sta alla nostra radice, è il principio di riferimento essenziale. Naturalmente per Benedetto XVI, il cui Discorso scandaglia in profondità questa tematica complessa e attualissima, è Cristo la Via-Verità-Vita, il Logos che fa da centro vitale, a partire dal quale fede e ragione possono abbracciarsi, dialogare, concordare. Un Logos – parola dialogica, quella che Benedetto XVI ci consegna – che percorre epoche, culture, tradizioni, consentendo ad esempio la fecondità dell’incontro tra cultura greca e cristianità. Un Logos che, in realtà, è croce-incrocio-crocicchio, dimensione “tra”, chiave e luogo del dialogo ad ogni livello. È del tutto evidente che l’arte dell’educazione si può affidare a questo tipo di maieutica e che, ad esempio, le idee-chiave che percorrono il Discorso di Ratisbona sollecitano alla pratica dell’autenticità, dell’accettazione dell’altro, dell’ospitalità, dell’accoglienza, della progettualità condivisa del mondo comune: tutte dimensioni e strategie relazionali che stanno alla base dell’educazione interculturale e, allo stesso modo, dell’educazione al dialogo interreligioso: soltanto una prassi educativa di questo tipo può corrispondere all’invito del papa e renderci «capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni».
*Giuseppe Milan è professore ordinario di pedagogia interculturale all’Università degli Studi di Padova, nonché docente di pedagogia interculturale presso la Facoltà Teologica del Triveneto. È presidente del corso di laurea in scienze dell’educazione e della formazione e membro del comitato scientifico della Scuola di Alta formazione “Educare all’incontro e alla solidarietà” della LUMSA (Libera Università Santa Maria Assunta) di Roma. Capo-redattore della rivista pedagogica Studium Educationis e co-direttore della collana pedagogica Percorsi dell’Educare, è autore di numerose pubblicazioni in testi e riviste pedagogiche nazionali e internazionali.