
16 Gen L’Intercultura: un itinerario del pensiero per l’uomo e la società
Enrico Riparelli ha studiato teologia, filosofia e lettere a Padova e Roma. Ha conseguito un dottorato in filosofia e uno in teologia. Attualmente è vicedirettore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Padova e docente di Interculturalità e Religione presso lo stesso istituto. È esperto di teologia interculturale e di teologia del dialogo. Tra le sue pubblicazioni: Il volto del Cristo dualista. Da Marcione ai catari, Peter Lang, 2008; I mille volti di Cristo. Religioni ed eresie dinanzi a Gesù di Nazareth, Edizioni Messaggero, 2010; L’altro possibile. Interculturalità e religioni nella società plurale (con G. Manzato e V. Bortolin), Edizioni Messaggero, 2013.
Professor Riparelli, lei ha pubblicato un’opera impegnativa dedicata al tema dell’Intercultura, dal titolo Itinerari filosofici per un dialogo interculturale. Paul Ricoeur, Raimon Panikkar, Bernhard Waldenfels (Edizioni Messaggero-Facoltà Teologica del Triveneto, Padova, 2015, pp. 274). Un’opera che, per chi conosce più da vicino la lista delle sue pubblicazioni, può essere letta sia come una tappa importante della sua ricerca accademica sul tema sia come il trampolino di lancio per ulteriori approfondimenti. Lei come la presenterebbe?
Come ogni ricerca anche questa pubblicazione trova il suo punto di partenza in un interesse personale ma intende anche offrire un contributo rivolto alla più ampia comunità scientifica. I miei precedenti studi sul tema della interculturalità si erano concentrati sulla prospettiva teologica; ho sentito quindi l’esigenza di confrontarmi con la stessa tematica anche da un punto di vista filosofico. Da notare che mentre la riflessione teologica sulla interculturalità riguarda ancora – specie in area italiana – uno sparuto gruppo di ricercatori, nel campo filosofico la ricerca avanza da tempo grazie a un sempre più nutrito gruppo di intellettuali che hanno accolto la sfida interculturale. D’altra parte non è certo un caso che la categoria di dia-logos sia di primaria importanza sin dalla nascita della filosofia – basti ricordare come esempio illustre i Dialoghi platonici – e il cosiddetto «pensiero dialogico» abbia raggiunto piena maturità già nel secolo scorso. I tre filosofi a cui è dedicato il mio volume testimoniano l’avanzamento degli studi su questo campo, ma nel contempo sono anche la prova della varietà di posizioni raggiunte.
Questo lascia intuire che diversi dibattiti sull’Intercultura sono confluiti nel suo lavoro… Perché scrivere un libro così specialistico sulla dimensione interculturale, in particolare vagliandone le prospettive e le sfide filosofiche?
Il volume è certo indirizzato innanzitutto agli specialisti del settore che già si dedicano ad approfondire tale tematica. Da questo punto di vista l’originalità del mio contributo consiste innanzitutto nell’accostare e mettere a confronto per la prima volta tre grandi protagonisti del nostro tempo intorno alla questione interculturale. Per di più, sebbene al filosofo francese Paul Ricoeur siano stati dedicati sinora numerosi e ampi studi, mancava però ancora una visione sintetica del suo alto contributo all’analisi del dialogo interculturale. Nel caso del teologo e filosofo ispano-indiano Raimon Panikkar le pubblicazioni sul suo apporto interculturale sono invece abbondanti, ma quasi sempre appaiono contrassegnate da una spiccata tendenza «simpatetica» nei suoi confronti. Infine riguardo al filosofo tedesco Bernard Waldenfels, nonostante abbia prodotto una serie di approfondite e originali ricerche sulla interculturalità, bisogna ammettere che non è ancora molto conosciuto in area italiana, per cui il mio libro vuole anche essere un contributo alla sua conoscenza.
Come dicevo, mi sono quindi rivolto innanzitutto agli specialisti, ma mia intenzione era anche proporre una riflessione che fosse in grado di introdurre anche i non specialisti in un vasto campo del sapere che si presta, purtroppo, ad affrettate e pericolose semplificazioni spesso dipendenti da premesse ideologiche difficilmente scalfibili.
Per capire la “genesi” del lavoro, vorrei chiederle più esplicitamente: da chi ha “ereditato” questo interesse? Cosa o chi ha fatto scaturire in lei l’idea di realizzare uno studio di tale complessità?
Se mi rivolgo a rintracciare la genesi di questo lavoro non trovo persone da cui avrei ereditato l’interesse. Incontro piuttosto una mia particolare sensibilità storico-teologica che mi ha portato sin dagli inizi delle mie ricerche a dedicarmi al confronto con l’«altro» del cristianesimo incarnato dalla figura dell’eretico. Il volume da lei citato più sopra Il volto del Cristo dualista. Da Marcione ai catari, insieme ad altri studi pubblicati in riviste scientifiche, testimoniano del mio interesse a questo proposito. In seguito ho allargato il confronto con l’altro da una dimensione intrareligiosa a una interreligiosa e interculturale. Non è difficile rinvenire nell’evento onnipervasivo della globalizzazione la spinta decisiva per lo spostamento dell’ambito della mia ricerca. Mi si potrebbe replicare che questo evento già dagli ultimi decenni del secolo scorso ha manifestato il suo grande impatto. Da parte mia non potrei che ammettere un tale ritardo, aggiungendo però che purtroppo in ambito teologico la difficoltà di confrontarsi con un fenomeno così importante si fa ancora sentire. Basti considerare che solo una decina di anni fa in un Istituto Superiore di Scienze Religiose italiano – precisamente quello di Padova – è stato avviato per la prima volta un corso istituzionale su «Interculturalità e religione» rivolto agli studenti della Laurea magistrale, e questo grazie alla lungimiranza dell’allora Direttore don Gaudenzio Zambon, un corso interdisciplinare che – è da notare – rimane ancora un unicum nel panorama della teologia accademica italiana.
Parlando di “Itinerari filosofici per un dialogo interculturale”, due aspetti si legano. Da una parte, il cammino filosofico, di ricerca filosofica e, dall’altra, il dialogo interculturale. Quel “per” suscita un’ulteriore riflessione… Vuol dire che non può esserci vero dialogo interculturale prescindendo da un itinerario filosofico? Detto in altre parole: quanto è importante la filosofia per il dialogo tra le culture?
Notavo più sopra che la ricerca filosofica si sente già da tempo interpellata a offrire il suo contributo critico e costruttivo alla realizzazione di forme di comunicazione tra le culture mondiali. Si tratta anzitutto di un contributo critico, come indagine su genesi, metodi, fini e limiti del discorso interculturale; ma anche di un apporto costruttivo, che spinge a segnalare nuovi orizzonti di ricerca. Naturalmente ciò non significa che l’approccio filosofico sia esclusivo e totalizzante, ma solo che una riflessione critica sul dialogo interculturale può contribuire validamente a mettere meglio in luce la complessità, l’urgenza e la fecondità di un discorso interculturale che nel contempo sappia però anche riconoscere i propri limiti.
Lei confronta tre “grandi” visioni dell’Intercultura, o meglio tre grandi intellettuali che presentano una propria percezione di questa realtà. Da dove scaturisce la scelta della struttura dell’opera e dei profili dei tre autori?
La mia intenzione primaria è stata di cogliere il contributo specifico di ciascuno dei tre filosofi alla fondazione di alcuni elementi di base dei vastissimi e assai variegati territori che compongono il mondo della riflessione interculturale. Ho scelto perciò tre intellettuali interessati con diverso grado di estensione ma eguale profondità alle problematiche afferenti al dialogo interculturale. Essi propongono itinerari riconducibili a diverse sensibilità filosofiche che con la loro originalità hanno potuto agire nel mio studio anche da mutua sollecitazione all’ampliamento della linea d’orizzonte del pensiero interculturale. L’accostamento di una triade di autori ha permesso di cogliere meglio le loro originalità rispetto a una ricerca che avesse dato spazio a un’unica voce, e nel contempo ha permesso di mantenersi nei limiti di un discorso raccolto, condizione certo più difficile da raggiungere se fosse stato interpellato uno spettro più ampio di filosofi.
Soffermiamoci brevemente su di loro. Paul Ricoeur… Come definirebbe brevemente il suo modello interculturale?
L’indagine ha inizio con un capitolo dedicato alla proposta filosofica di Paul Ricoeur, la più distesa delle tre in quanto a varietà di tematiche affrontate e che perciò ha richiesto un maggiore impegno nell’opera di selezione. Per il filosofo francese solo una «identità narrativa» – ossia una identità in costruzione costante – può dare forma a un soggetto reso disponibile a indirizzare la sua pur fragile identità verso una pratica di mutuo riconoscimento. Questo dinamismo identitario del soggetto è in grado di fondare un movimento che interessa anche le comunità culturali, per cui sull’analisi di un sé (identità) che si riconosce come altro (differenza) si apre lo spazio per l’apertura ospitale delle culture. Da qui la proposta di alcuni modelli di integrazione tra identità e differenza, costituiti dalla traduzione, dalla memoria condivisa e dal perdono, mediante i quali il filosofo mette a fuoco l’evento – sempre asimmetrico e contrassegnato da una «giusta distanza» – dell’incontro con lo straniero, incontro atto a favorire il riconoscimento e la rivitalizzazione delle proprie potenzialità dimenticate o addirittura rimosse, nonché a promuovere una narrazione incrociata delle identità, ossia una «ospitalità narrativa». Scriveva Ricoeur già nel lontano 1961 che «la storia degli uomini sarà sempre più una vasta spiegazione dove ogni civiltà svilupperà la propria percezione del mondo nel confronto con tutte le altre».
Raimon Panikkar, un teologo che lei considera in prospettiva filosofica nell’affrontare il suo “paradigma” di dialogo interculturale. Sbaglio?
Nel secondo capitolo si prosegue in effetti con un’analisi dell’itinerario interculturale proposto da Raimon Panikkar, il quale ha dedicato l’intera sua esistenza alla fondazione di un pluralismo accogliente ponendosi a servizio dell’incontro tra Occidente e Oriente. Estremamente composite sono le tematiche da lui affrontate in una sintesi sempre aperta, ma non è stato difficile cogliere nella sua «intuizione cosmoteandrica» il filo rosso che lega i diversi segmenti di ogni esperienza umana e nel mythos lo strumento conoscitivo ed espressivo più adeguato a formulare una tale intuizione, poiché ogni mito «ci permette di afferrare il significato di quello che l’altro dice anche quando non ne condividiamo il mondo concettuale». Una identità radicalmente relazionale è per Panikkar la manifestazione più concreta e genuina dell’armonia universale, e lo slancio verso una comunione mistica rappresenta il gesto che meglio corrisponde a tale armoniosa composizione degli opposti. È questo il mito del pluralismo armonico a cui tutti gli interlocutori (individui e culture) sono chiamati a partecipare, sperimentando in tal modo la vivace fecondità da cui è connotato ogni genuino incontro interculturale.
Arriviamo a Bernhard Waldenfels…
Più concentrato sul tema della estraneità appare il terzo capitolo dedicato a Bernhard Waldenfels. Questi è convinto che solo ponendosi in una sintonia «responsiva» nei confronti del pungolo dell’estraneo è concesso agli individui e alle culture di accedere al dialogo e di stabilire un «colloquio a distanza» caratterizzato da un discorso che non verte sull’estraneo bensì parte dall’estraneo. La scena di questo itinerario è dominata da una identità «responsiva» sempre esposta al pungolo di una alterità radicale che abita persino nel proprio del soggetto sotto forma di inquietudine e turbamento, e pertanto rivela una ineludibile scissione originaria. L’estraneità contamina inevitabilmente anche il nucleo della nostra identità, si annida già in noi stessi. Bisogna perciò riconoscere – sottolinea Waldenfels – che all’inizio non c’è l’identità ma la differenza nell’identità, per cui il traguardo di una tradizione culturale giunta a piena maturazione non corrisponde alla riscoperta di una presunta purezza nativa. Al contrario si rende necessario il riconoscimento dell’intreccio tra cultura propria e cultura estranea, manifestazione di una «disarmonia prestabilita» che attesta come nessuno sia in realtà padrone in casa propria. Infatti «una pura cultura propria sarebbe una cultura che non dà più risposte, ma che solamente ripete risposte precedenti: essa non vive, ma sopravvive».
Dunque, si è confrontati a tre approcci filosofici, si presentano tre sentieri diversi che lei “unisce” all’orizzonte del dialogo interculturale. Tutto ciò le sembrava evidente quando ha cominciato a lavorare sugli autori?
Accostare in un’unica ricerca tre grandi intellettuali come Paul Ricoeur, Raimon Panikkar e Bernhard Waldenfels è stata per me una scommessa speciale, data l’estensione e la complessità della loro opera. Certo la diversità di prospettiva tra i tre filosofi appariva evidente già ad un primo accostamento ai loro scritti. Bastava notare le differenze di stile, di sensibilità e ispirazione filosofica, nonché di relazione con altri ambiti disciplinari come la teologia. Ciò che risultava meno chiaro all’inizio della ricerca era come tali differenze potessero divenire dei catalizzatori reciproci tra modelli di pensiero apparentemente lontanissimi. In realtà nel corso dello studio viene messo in rilievo che pur nella distanza tra prospettive, se queste si rendono disponibili a un’apertura verso l’«altro da sé» – ed è il caso di tutti e tre i percorsi analizzati – possono essere riscontrate sia sovrapposizioni sia divergenze.
Fine prima parte. Continua…
di Gabriele Palasciano