Pierre Emmanuel (1916-1984) Il poeta dimenticato del sangue di Cristo

da “Il Sole 24 Ore” – 24 aprile 2016 – di Gianfranco Ravasi.

L’evocazione degli anniversari può sembrare un rituale un po’ usurato e valido più per gli enti di promozione locale. Tuttavia può offrire talvolta occasione per far riaffiorare dall’oblio qualche figura impallidita ma forse ancora significativa. A nostro avviso è il caso di un poeta francese che nasceva il 3 maggio di cent’anni fa in un piccolo centro francese dei Bassi Pirenei, Gan, e che morirà a Parigi nel 1984. Il suo vero nome era Noël Mathieu, ma si impose con lo pseudonimo Pierre Emmanuel, la cui risonanza biblica (in ebraico Emmanuel significa «Dio con noi», come ricorda il Vangelo di Matteo 1,23, citando il profeta Isaia 7,14) spiega la temperie sacra della sua poesia e il fatto che lo abbiamo cooptato in questa pagina dedicata alla religione.

Il nostro, perciò, sarà soprattutto un ritratto tematico più che critico-letterario, nonostante l’assegnazione del Grand Prix da parte dell’Académie Française nel 1963 e la successiva cooptazione, cinque anni dopo nella stessa Accademia, dalla quale però polemicamente si dimise nel 1975. Effettivamente Emmanuel attraversò gli anni turbolenti della guerra, della Resistenza e della rinascita post-bellica, un arco di tempo al quale dedicò varie raccolte poetiche, così come si impegnò in prima persona nell’attività giornalistica e nella saggistica socio-culturale (ad esempio,  Pour une politique de la culture del 1971), fino al punto di assumere con George Sadoul la direzione della rivista Étoiles. Si potrebbe, quindi, proporre anche un profilo intellettuale, sociale e persino politico di questo scrittore che, a quanto mi risulta, non fu mai tradotto in italiano, al di là di qualche sporadica e frammentaria collocazione antologica.

Ciò che lo distinse, però, fino a costituire quasi il fil rouge della sua ricerca poetica maggiore e della sua esperienza personale, fu il suo fervido cristianesimo, segnato dall’impronta del cattolicesimo francese alla Bernanos, Mauriac, Claudel, Jouve, Péguy, Bloy. Una fede inconcussa eppure tormentata, striata dal sangue del Cristo in agonia sino alla fine dei tempi, per usare la celebre espressione dei Pensieri di Pascal: «I passi di Cristo – scriveva il poeta – sanguinano ancor oggi per le strade del mondo». Una religiosità che non si isolava tra gli incensi sacrali del tempio e non esitava a inoltrarsi nelle nebbie delle piazze o delle pianure della storia ove grano e zizzania attecchiscono insieme: «Oltre i tiranni rochi di mutismo – proclamava nel 1942 nel suo Inno della libertà – oltre l’ordine beffardo dei tiranni, ci sono le immense messi delle genti».

La sua era una spiritualità “cantata” e che talora privilegiava la tromba apocalittica rasentando le tonalità stridenti dell’enfasi, rieditando lo stile solenne degli amati Victor Hugo e Alfred de Vigny, con uno scialo di metafore, simboli ed effetti speciali. La fedeltà al testo sacro imponeva al suo orizzonte la stella polare della libera citazione o parafrasi biblica, come nel caso del “Padre nostro” rielaborato nel poema Giacobbe (1970), come accadeva nei titoli delle sue raccolte poetiche: Jour de colère del 1942, versione del Dies irae profetico; l’esplicito Le poète et son Christ (sempre del 1942), oppure La colombe, noto simbolo scritturistico dello Spirito Santo e dello stesso Israele (1943), e la Prière d’Abraham del 1943; Memento des vivants, ove si rimanda al linguaggio liturgico cattolico (1944); così come Sodome dello stesso anno conserva l’eco della città biblica peccatrice, a cui si associa Babel, poème àdeux voix, la Babilonia imperiale che si oppone alla Gerusalemme celeste (1951); o anche l’evidente Évangeliaire (1961), una delle sue opere più note, per continuare con La nouvelle naissance (1963), una chiara categoria teologica neotestamentaria, per finire con l’emblematica Sophia del 1974, ammiccamento alla sapienza, simbolo trinitario e mariologico.

Se tale è l’evidenza religiosa dei titoli, si può immaginare quanto fitto sia l’intarsio testuale dei temi, delle immagini, delle evocazioni spirituali che fungono da palinsesto ai suoi versi, tanto da rendere la poesia di Emmanuel una sorta di ininterrotta invocazione orante. Eccone uno “specimen” che traiamo dal citato Évangeliaire: «Signore, insegnaci a sostenere il tuo silenzio, / quando l’ombra s’addensa e il fuoco si spegne. / Signore, insegnaci a consumare l’attesa, / per far sbocciare l’alba che ci aspetta. / Signore, insegnaci a parlarti; / il fuoco sia sulla nostra lingua dinanzi alla notte. / Signore, insegnaci a chiamarti Padre nostro: / una preghiera che ha il sapore del pane. / Una preghiera che sia la nostra casa».

La stessa preghiera, opera tipicamente umana, viene concepita come grazia, come dono divino perché è Dio stesso «che affiora sulle nostre labbra mentre preghiamo». È, infatti, sorprendente che nella Bibbia siano inseriti anche i Salmi: se la s. Scrittura è per eccellenza parola di Dio, come può essere rubricato sotto quella definizione un libro di preghiere, cioè i Salmi? L’idea che soggiace è quella espressa da Emmanuel: come ha fatto Cristo col “Padre nostro”, è Dio stesso che mette nel nostro animo le parole autentiche per invocarlo, quelle che esprimono la nostra genuina identità, la giustizia ma anche la nostra fragilità, per stabilire così un dialogo alla pari con lui. Il risultato – come si verifica costantemente nella poetica di Emmanuel, compresi i suoi saggi “teologici” (ad esempio, Qui est cet homme? del 1947 o Le gout de l’Un del 1963e Le monde est intérieur del 1967) – è quello di un’oscillazione costante e coerente tra due poli estremi.

Si tratta dei due termini dialettici che reggono la ricerca intima dell’intera letteratura cattolica francese del Novecento a cui abbiamo già alluso e che lambiscono anche un agnostico come Camus e intridono tante pagine di Simone Weil. Da un lato, l’attrazione abissale e fatale verso l’angoscia, la cui «bocca spalancata mai dice: Basta!», per usare una famosa immagine biblica del sepolcro (Proverbi 30,16); d’altro lato, il balzo trascendente verso la speranza su impulso della grazia, come insegna Péguy con Il portico del mistero della seconda virtù (1911). La crisi e la delusione dell’epoca vissuta da Emmanuel, rispecchiate nei suoi scritti, l’inventario delle angustie, dei mali e delle colpe sociali e personali, l’impotenza della volontà vengono, così, percorse e irradiate dal soffio dello Spirito di Dio che trasfigura e feconda il deserto della storia umana e di ogni autobiografia individuale e fa balenare l’orizzonte luminoso della redenzione.