29 Nov Monolocale
Sulla mensola nuova c’è una conchiglia che ricorda quando vivevo più vicino al mare e una fotocamera analogica con cui ho appena scattato la foto del panorama che vedo dall’unica finestra che ho. Questo è il mio rituale dopo aver lasciato la mia città natale, ogni volta che entro nell’ennesimo monolocale in affitto di una manciata di metri quadri. Il monolocale è una parola che evoca più di una semplice stanza. È una dimensione esistenziale, uno spazio fisico che riflette i bisogni, le sfide e i sogni di chi lo riempie.
Ma quando ad abitarlo sono giovani, non è solo un luogo, ma un microcosmo dove coesistono limiti e possibilità, regno dell’essenziale. È il posto dove il superfluo non entra, perché non c’è fisicamente spazio. Cercando di stipare 10 anni di vita in un paio di scatole, impari che ogni oggetto deve meritarsi il suo posto, e tu con loro. Il monolocale, in qualche modo, è un luogo in cui tutto accade senza clamore, come la creazione di mondi che non esistono per nessuno tranne per chi li abita. Ogni centimetro quadrato sembra infatti chiederti di essere abitato due volte: come spazio fisico e come spazio mentale. Ed è proprio qui, dove lo spazio esterno si riduce mentre la socialità si sposta forzatamente fuori casa, che l’interno comincia a espandersi.
È un ritorno a luoghi che avevi lasciato indietro mentre mondi inesistenti affiorano. Come Atlantide, come pensieri che si ostinano a emergere creando parole nuove, modi nuovi di dire e di essere, che tu lo voglia o no. Il monolocale è spesso una filosofia involontaria che i giovani sono costretti ad abbracciare. È un luogo di resistenza silenziosa. Ci sono scelte che non fanno rumore, cicatrici di lotte quotidiane: pagare l’affitto in una città dove anche respirare costa caro, inventarsi un ufficio tra il letto e l’angolo cottura sotto al tetto mansardato, trasformare pochi metri quadri in un luogo che chiami casa e dove, dopo pochi mesi, dovrai già togliere il tuo nome dal citofono.
A volte la vita è proprio questo: percorrere la strada più dura, quella che richiede un rifugiarsi nel seminterrato per ricominciare da zero. Ci sono vite che non si sveleranno mai davvero, non troveranno spazio per esprimersi, se tutto intorno resta immobile e non riesce a rompere il silenzio, se avere una casa a misura della dignità dell’essere umano non è ancora un diritto. Ci sono gesti che contano, ci sono luoghi che custodiscono significati profondi. Ma tutto questo richiede tempo, una pazienza infinita e una fatica che pesa come le macerie da cui dobbiamo ripartire, che con il tempo tornano cemento per rimettere insieme ciò che si è sgretolato. Servono elementi concreti, ma anche nutrimento per l’anima.
Eppure è così difficile tenere il passo con questo modo assurdo di affrontare tutto, così frammentato e caotico. In fondo, ognuno di noi ha una porta dietro la quale si nasconde una belva affamata e infelice. E dietro ogni porta dei monolocali ci sono vite che cercano di resistere. Non è un simbolo di libertà, ma di una lotta silenziosa: quella per rendere vivibili non solo i metri quadri in cui si abita, ma anche la propria esistenza in un sistema che lascia poco spazio ai sogni. Dare da mangiare a quella belva infelice, prendersi cura di quella parte di noi, ricordarsi da dove veniamo e dove vogliamo andare, cercare tante possibilità quante ne contiene la foto che racchiude la tua unica finestra; tutto questo è la vera fatica del nostro tempo.
Margherita Pucillo