70 anni della Repubblica e tante culture

Un testo di Giuliano Amato.

I 70 anni della nostra Repubblica iniziarono quando il ‘900 aveva già dato il peggio di sé. E la stessa Italia aveva dato il peggio di sé, perseguitando gli oppositori, arrivando all’ignominia delle leggi razziali ed entrando in guerra al fianco della Germania nazista, che aveva aggredito altri paesi e stava apprestando i suoi forni crematori per sterminare gli ebrei.

Fu, in ragione di ciò, uno straordinario nuovo inizio, segnato nei suoi diversi percorsi da un concorso culturale che non si sarebbe mai più ripetuto: un concorso che si sarebbe avvalso non soltanto delle grandi culture politiche presenti alla Costituente, ma anche della loro sintonia con quelle che avevano preso a manifestarsi nelle arti, dalla letteratura al cinema.

Si sarebbe parlato, a proposito di questa sintonia, di impegno civile degli intellettuali e ciò avrebbe destato non poche polemiche, perché l’impegno, inteso come prender parte per l’una o per l’altra parte politica, parve a Norberto Bobbio (e al di là di un certo limite allo stesso Elio Vittorini) quello che Julien Benda aveva notoriamente definito il tradimento dei chierici. Ma se è vero che questo ci fu, è non meno vero che allora fu anche e in primo luogo l’impegno che seguiva ad anni di asservimento e di evasione e che portava semplicemente a tornare alla realtà, a scoprire la società com’era.

“Gli scrittori e i registi – scrisse Cesare Zavattini – hanno voluto guadagnare il tempo perduto: guardare, guardare, guardare, mettere dentro gli occhi gli uomini e le cose che avevano per anni trascurato”. E fu, questa riscoperta della realtà, la riscoperta delle periferie, dei diseredati, dei vecchi pensionati poveri e soli con la loro dignità come Umberto D, oppure dei padri di famiglia che inseguivano i ladri di una bicicletta rubata da cui dipendeva il loro lavoro.

“Mettere dentro gli occhi gli uomini e le cose”. Gli stessi uomini e le stesse cose erano al centro di quella trasversale cultura politica che fu l’humus della Costituente e che lo stesso Bobbio – lo ricorderà anni dopo Leopoldo Elia – aveva visto formarsi nelle lezioni di filosofia del diritto di Aldo Moro a Bari nel 1945/46 come in quelle di Giuseppe Capograssi, ispirata al personalismo, dove la persona e la solidarietà fra le persone nelle formazioni intermedie precedono lo Stato e ne vengono riconosciute. È questa cultura, prima ancora di una superiore qualità degli uomini che oggi riteniamo perduta, a consentire il compromesso costituzionale. Ben più facilmente di quanto non sarebbe accaduto nel confronto fra una parte liberal mercatista ed una socialcomunista, le maggiori forze politiche si poterono riconoscere nel disegno, articolato dallo stesso Moro oltre che da Giuseppe Dossetti e da Giorgio La Pira, ispirato da questi principi. Entrambe le parti, infatti, erano non solo fortemente contrarie al fascismo, ma anche critiche verso l’individualismo liberale. Non è un caso che l’ala liberale fu minoranza alla Costituente e che i suoi vecchi e pur prestigiosi esponenti vennero tenuti fuori dalla Commissione dei 75, che elaborò la Costituzione.

In quel clima nacque e fece i suoi primi passi la Repubblica ed anche se il neorealismo durò pochi anni, durarono più a lungo le grandi culture politiche che ne erano state l’alveo. E ad esse dobbiamo quella integrazione nello Stato, e nelle regole della democrazia, di un popolo diviso e giunto all’appuntamento repubblicano con perduranti propensioni all’antistatalismo. Certo si è che il complessivo clima iniziale non lo avremmo più ritrovato e c’è da chiedersi se è anche per questo che nelle grandi trasformazioni intervenute nei decenni successivi – trasformazioni (come sempre nella storia umana) intrise di bene e di male – il bene indiscutibilmente c’è stato, ma la deriva del male è stata forte, ha incontrato meno ostacoli di quanto sarebbe stato desiderabile e ha potuto segnare di sé la nostra società, sino a farci dubitare che il bene vi fosse rimasto. […]

 

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