L’anno che verrà: caro amico ti scrivo…

Nel gennaio di quasi un decennio fa (2004), l’allora cardinal Ratzinger, dialogando con il filosofo Habermas, da un lato, evidenziò la presenza di “patologie nella religione che sono assai pericolose e che rendono necessario considerare la luce divina della ragione come un organo di controllo dal quale la religione deve costantemente lasciarsi chiarificare e regolamentare”; dall’altro lato, parlò di “patologie anche nella ragione”, di “una hybris della ragione che non è meno pericolosa” e per la quale “anche alla ragione devono essere rammentati i suoi limiti ed essa deve imparare la capacità di ascolto nei confronti delle grandi tradizioni religiose dell’umanità”.

Alla luce di tali considerazioni, il rapporto tra atei e credenti può assurgere ad un livello più maturo solo quando essi useranno la ragione e il logos – intesi in modo non ristretto né riduttivo – per distaccarsi, con autoironica sapienza, dalle idee idolatriche di Dio o dell’Ateismo, e poter così scrutare nelle profondità di Dio e dell’uomo (1Cor 2,6-7.10-11).

In tal caso, infatti, il pensare credente, soprattutto di fronte alla notte del dolore, della malattia e del Male – di cui gli atei non cessano di chiedere ragione -, diviene capace di accogliere ed integrare in sé, di com-prendere ed abbracciare (Tomàs Halìk) il dubbio tormentato, il mistero inquietante, l’absurdum tragico, l’oscurità drammatica, l’abisso angosciante, durante i quali solo il Dio ‘tappabuchi’ (D.Bonhoeffer) può apparire taciturno ed assente: “in effetti è la fede che impedisce pazienza e rassegnazione, perché mantiene un’assurda tensione nel confronto folle con una possibilità diversa, una salvezza, lontana da ogni pena […] Mi resta solo un brandello di fede che rende tutto più difficile” (S.Quinzio). Ma tale pensare è in ciò sostenuto dall’“idiozia” (S.Fausti) dell’esperienza del Gesù ‘rattristato’ (Mc 14,34; Lc 22,44) e ‘abbandonato’ (Mc 15,34), dalla ‘disputa’ e dalla ‘lotta’ di Giobbe e Giacobbe con Dio, dalla possibilità di ‘gridare’: “Signore…aiuta la mia incredulità” (Mc 9,24). Se allora “anche il credente è un agnostico” (Bruno Forte), al sostantivo-participio presente possiamo affiancare l’attributo epi-gnostico (Efesini 1,17), in quanto il credente si apre e si approssima sempre di più all’idea infinitamente complessa, proto-escato-logica, di Dio: un Dio sempre più grande (nella Sua giusta misericordia) di quello che noi si possa pensare (Is 55,8).

D’altra parte, il pensare ateo, divenuto consapevole di ‘credere’ anch’egli (J.Kristeva) con ‘speranza’ (E.Bloch) nell’“Oltre” (D.Demetrio) della “Cosa Ultima” (M.Cacciari), è capace di aprirsi ed in-tendere l’‘Amore fino alla fine’ (L.Muraro) di cui narrano le Sante Scritture (Gv 13,1) e le testimonianze dei credenti (1Gv 4,7-8.20), non solo come messaggio rivoluzionario di civiltà (A.Levi), ma anche come vera immagine di Dio, abbandonando in tal modo, da buon a-gnostico, false e parziali idee di Dio: “all’ospedale c’era un crocifisso appeso alla parete di fronte al mio letto. Lo guardai: – Chi te lo ha fatto fare? – gli dissi e mi sembrò così solo, coi chiodi nelle mani e nei piedi, la corona di spine, il costato sanguinante, così abbandonato che volli fargli compagnia. Fu così che decisi di rifiutare la morfina che mi iniettavano due-tre volte al giorno per alleviare il dolore…” (Luce D’Eramo).

E’ in tale contesto, quindi, che matura l’interesse reciproco tra ateo a-gnostico e credente epi-gnostico, entrambi disponibili ora ad avventurarsi, con “maggiore generosità interpretativa” (R.Goldstein), in un dia-logos sempre pronto ad ospitare le altrui domande ‘difficili’ (E.De Luca) e ‘fondamentali’ (J.L.Marion), prima ancora di discutere appassionatamente sulle risposte inevitabilmente differenti. Non a caso il cardinal Ravasi, chiudendo l’evento di Assisi, ha citato il pensatore russo Evdokimov quando auspicò per cattedrali e basiliche “una soglia aperta affinché i venti dello spirito escano nella società e la società, anche con il suo grido, persino con le sue bestemmie e i suoi problemi, entri nel tempio”. All’interno di “questa osmosi (che) è nell’animo della vera religione” entrambi possono ri-conoscersi (A.Levi) ricercatori di qualCosa di comune ed essere reciprocamente ri-conoscenti per l’arricchimento ricevuto: il lato tragico della fede – per il credente -, la derivazione dalla ‘tra-dizione’ religiosa di alcuni valori laici – per l’ateo -. E’ proprio vero allora, concludendo con un’osservazione di Orlando Franceschelli, che, forse, “non ci siamo detti ancora il meglio”…

sergio.ventura@cortiledeigentili.com