La società della stanchezza

Il mondo contemporaneo ci vuole perennemente attivi. La nostra condizione umana è vincolata a questo moto perpetuo, che risulta estenuante.  Il sistema neoliberista, da molti studiosi criticato per questo focus ossessivo, è stato capace di trasformare gli individui in soggetti iper-produttivi, intrappolati in un meccanismo senza fine alla ricerca del successo e della performance. Viviamo quindi di corsa, immersi nella logica della prestazione in cui bisogna essere sempre sul “pezzo”, con la costante sensazione che se si rimanesse indietro il danno potrebbe essere per noi irreparabile. Il fare, la produzione incessante è un’ossessione, soprattutto nell’ambito lavorativo.

Sotto questo punto di vista l’identità personale si costruisce ormai sulla base della produttività e del rendimento: non siamo più semplici lavoratori, ma aziende in perenne competizione, costantemente impegnate nell’auto-ottimizzazione e nella massimizzazione delle proprie skills. Nel lavoro, come nella vita quotidiana, siamo chiamati ad essere sempre pronti, sempre i migliori, in grado di dimostrare ogni giorno qualcosa al di là delle nostre capacità. Ogni momento di inattività ci appare come un fallimento, un’occasione sprecata, un tassello perduto che porta inevitabilmente a uno stato di disagio e anche di senso di colpa.

Oggi non ci fermiamo mai, eppure ci perdiamo lungo la strada. Crediamo di essere liberi, ma in realtà siamo intrappolati da aspettative, spesso autoimposte, che ci soffocano. Corriamo senza sosta, fino a renderci conto che non abbiamo mai scelto davvero cosa fare. La nostra libertà si riduce a un’unica possibilità: accelerare. Invece che viaggiare verso un modello di vita soddisfacente, questa logica non fa altro che generare persone esauste, senza un equilibrio tra azione e riposo.

La nostra stanchezza non è solo il risultato del fare troppo, ma del non sapere più il motivo per cui lo stiamo lo facciamo. Ci troviamo intrappolati in un ciclo continuo, un automatismo che spinge avanti senza una direzione chiara. E in questo loop infinito determinato da un’iper-produttività che prosciuga energie fisiche e mentali, fermarsi non è solo un diritto, ma una necessità. Solo concedendoci una pausa possiamo riscoprire il senso di ciò che siamo, anziché limitarci a fare. Il tempo libero non deve essere più interpretato un lusso da giustificare, ma una necessità imprescindibile nella nostra quotidianità.

A questa velocità, che punta solo alla quantità e mette da parte la qualità, dobbiamo rispondere con la riscoperta della lentezza e della contemplazione, un vero e proprio atto rivoluzionario che rimette al centro la necessità di scindere tra lavoro e tempo libero, tra dovere e piacere, tra pubblico e privato. La lentezza non è un ostacolo, ma una scelta consapevole, un’opportunità per riconnetterci alla nostra umanità, per ascoltare il nostro ritmo interiore, per comprendere cosa desideriamo veramente. Riscoprire il valore della pausa è il primo passo per ritrovare noi stessi. Questo non significa fermarci per sempre: dobbiamo semplicemente imparare a rallentare, smettere di rincorrere il tempo e iniziare a viverlo. Solo chi sa fermarsi, alla fine, riesce a capire davvero dove sta andando e perché.