
05 Mar Il seme fecondo della fraternità
da Il Sole 24 Ore – 2 marzo 2025 – di Gianfranco Ravasi.
In questo articolo il Card. Ravasi si sofferma sul lavoro di Enzo Bianchi che intesse una trama fitta di considerazioni sul tema e il suo sguardo si allarga all’«accettazione incondizionata del fratello».
Con una buona dose di ironia si è soliti dire che, della celebre trilogia illuministica francese, la liberté e l’egalité si sono pienamente insediate nelle piazze, nei parlamenti, nella società civile con l’imponenza delle loro figure, mentre la fraternité si è riparata sotto le volte delle chiese, rimanendo nella loro penombra, lodata un po’ stancamente solo dai predicatori. A farla uscire si è sforzato papa Francesco con la nota enciclica Fratelli tutti (2020) e con un’incessante evocazione in parole e atti: si pensi solo al documento Sulla fratellanza per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato il 4 febbraio 2024 ad Abu Dhabi col Grande Imam di al-Azhar.
A riproporla ora è Enzo Bianchi, da sempre capace di intrecciare tempio e piazza, fede e cultura, e lo ha fatto con un essenziale volumetto che si presenta in un panorama attuale antitetico, striato dal sangue delle guerre col loro corteo di odio, di violenze domestiche, di rabbia infiammata, di rancori e paure. È, quindi, solo un seme sparso in un terreno purtroppo pietroso. Naturalmente c’è una stella polare di riferimento in questo discorso, per altro sempre limpido e appassionato, ossia il grande codice dei credenti e della stessa cultura occidentale, la Bibbia.
Così, a entrare in scena, sono innanzitutto le Scritture ebraiche, segnate da coppie che generano, da famiglie e clan parentali, da popoli e dall’intera umanità, il tutto rappresentato non in modo utopico e idealizzato ma nella pesante scansione della storia. Non per nulla una delle prime scene è emblematica, l’assassinio del fratello Abele da parte di Caino, per cui «la fraternità è minacciata nel suo stesso nascere». Alla radice non c’è solo l’invidia ma anche la paura dell’altro e del suo esistere sereno che agli occhi del fratricida si trasforma in «un’insidia, una minaccia, un ostacolo, come dirà Sartre, l’altro è l’inferno».
Il tema della fraternità luminosa dilaga poi nelle Scritture cristiane che, però, non ignorano il tradimento come attesta Giuda. Si pensi che il vocabolo greco adelphós risuona ben 343 volte e persino il femminile adelphé echeggia 26 volte, con vari derivati come philadelphía, l’amore fraterno (sei volte) e un originale adelphótes, ignoto alla classicità, che per due volte è citato nella Prima Lettera di Pietro a designare la comunità dei fratelli nella fede, una “fraternità”.
Bianchi intesse una trama fitta di considerazioni sulla sequenza testuale neotestamentaria ove Cristo definisce «miei fratelli» i suoi discepoli, assegnando il titolo anche a tutti coloro che «fanno la volontà di Dio», così che sono «tutti fratelli», essendo figli di un solo Padre Dio (e qui si intuisce il rilievo prezioso del monoteismo) che «non fa preferenze di persone», tant’è vero che il simbolo della fraternità operosa è uno straniero, il buon Samaritano, in una parabola di Gesù in cui Dio non viene menzionato perché l’esempio è incarnato da un uomo.
Lo sguardo di Enzo Bianchi si allarga, infine, nello stile dell’applicazione morale, a un corollario di esigenze, come «l’accettazione incondizionata del fratello/sorella», l’assunzione di responsabilità degli uni verso gli altri, la solidarietà e la comunione e così via. Il tutto è espresso «con l’abituale profondità umana e intelligenza spirituale» che è riconosciuta a fratel Enzo dalla calorosa prefazione di papa Francesco. Questo scritto del fondatore della comunità di Bose ci permette di riportare sulla ribalta una figura religiosa straordinaria del Novecento, padre David Maria Turoldo, anch’egli pronto a uscire dall’oasi sacrale del tempio per entrare nel groviglio delle società.
Infatti, è proprio Bianchi a stendere la prefazione a un bel saggio che, pur nascendo dall’ambito accademico, rivela una sua freschezza e originalità. Autore è Mauro Manzoni, un docente di religione nelle scuole che unisce questo suo impegno all’incarico di sindaco di Varenna (Lecco), un promontorio delizioso caro a un grande pensatore tedesco di matrice italiana, Romano Guardini, e più modestamente anche a chi scrive queste righe che lo contempla in una mirabile visione frontale dall’alto durante la sosta estiva. Anche Turoldo l’amava è a questo piccolo borgo lariano, ormai segnato anch’esso dall’overtourism, aveva dedicato una poesia riprodotta nel volume.
Possiamo solo accennare alla raffinata ed esemplare ricerca del sindaco-docente: essa scava nell’immensa produzione turoldiana alla scoperta di un pur vasto territorio, solitamente ignorato, quello degli inni liturgici. Si pensi che questo corpus poetico-spirituale copre tutte le domeniche e le feste principali, inseguendo i tre cicli annuali che la liturgia dispiega. Sono consapevole di questo insonne ricamo che il frate servita ha operato, non solo per la profonda amicizia che ci univa e per il dialogo costante, ma anche per esserne stato coinvolto. Lo stesso card. Carlo Maria Martini ne era rimasto stupito tanto da comparare padre David a Romano il Melode, un mirabile creatore di inni della Chiesa siriaca nel VI secolo secondo un modello detto contacio, cioè un’omelia lirica (si tramanda che ne compose un migliaio, ce ne restano solo 85, non tutti autentici).