Il dialogo fra santi, arte e memorie

da Il Sole 24 Ore – 23 marzo 2025 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Card. Ravasi ci parla dei cento anni della «Rivista di Archeologia Cristiana» celebrati con un numero speciale che traccia l’intera diacronia delle vicende vissute.

Era il 6 gennaio 1852 quando Pio IX istituiva la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra «per custodire i sacri cemeteri antichi, per curarne la conservazione, le ulteriori esplorazioni, le investigazioni, lo studio, per tutelare le più vetuste memorie dei primi secoli cristiani». Con Pio XI nei Patti Lateranensi (art. 33 del Concordato) del 1929, veniva confermata questa pertinenza alla cura della Santa Sede delle oltre cento catacombe cristiane che insistevano nel territorio italiano, dalla Toscana alla Sicilia e soprattutto a Roma, attribuzione confermata nella revisione del Concordato nel 1984 (art. 12).

Alla radice dell’identificazione scientifica di questo immenso patrimonio archeologico di straordinaria imponenza (talora più di 12 chilometri di corridoi con tombe su cinque/sette piani) nel ventre del territorio romano si era distinto l’archeologo giovanissimo Giovanni Battista de Rossi (1822-1894), artefice della riscoperta di una sorta di archetipo, la Tricora della catacomba di San Callisto sull’Appia, e autore di una fondamentale Roma sotterranea cristiana (1844). In seguito, l’11 dicembre 1925 Pio XI costituiva il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, un ente accademico che si dedicava allo studio e all’insegnamento riguardante, appunto, i monumenti cristiani delle origini. Un anno prima (1924) nasceva la «Rivista di Archeologia Cristiana», organo ufficiale scientifico sia della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra sia dell’Istituto di Archeologia Cristiana.

In occasione del centenario di questa rivista, che gode di un prestigio internazionale tra gli studiosi, si è pensato di elaborarne un numero commemorativo che tracciasse l’intera diacronia delle vicende vissute da quelle pagine ma anche elaborando alcuni saggi emblematici. Da essi emergono scenari sorprendenti, come l’interlocuzione con quell’immenso deposito di memorie archeologiche che è la Terra Santa, l’epigrafia, l’architettura, l’agiografia, le basiliche sotterranee, le comparazioni con patrimonio archeologico cristiano del Mediterraneo e persino una curiosa ricerca iconografica sull’«angelo rosso e l’angelo turchino»… Naturalmente il tutto accompagnato da note generali sui restauri condotti con una strumentazione tecnologica sempre più sofisticata (soprattutto col ricorso al laser) o sulla topografia cresciuta progressivamente con le varie prospezioni.

È nota la passione che alcuni pontefici hanno riservato a questa disciplina e i Musei Vaticani ne sono una straordinaria attestazione. Essi sono stati idealmente generati in una fredda mattina del 14 gennaio 1506 quando, da un terreno agricolo situato sul colle Oppio, tra la basilica di Santa Maria Maggiore e il Colosseo, affiorò l’impressionante gruppo marmoreo del Laocoonte che papa Giulio II volle acquisire e collocare in Vaticano, in seguito al caloroso suggerimento di Michelangelo e dell’architetto Giuliano di Sangallo. Esso si mostra ancora oggi con la sua drammaticità nel Cortile Ottagono del Museo Pio-Clementino.

In alcuni casi negli affreschi catacombali si manifestava il dialogo tra la nuova religione e la classicità, come nel caso del Cristo raffigurato secondo l’iconografia di Orfeo che al suono della sua cetra attira le anime, un’immagine che ho assunto nel 2010 per la comunicazione del mio cardinalato. Come si diceva, certe sezioni dei Musei Vaticani testimoniano la passione archeologica di alcuni pontefici: il Museo Chiaramonti (papa Pio VII) è una sorta di «foresta» statuaria greco-romana e la Galleria Lapidaria è un’incredibile «biblioteca» di pietra di 3.614 epigrafi dal I sec. a.C. al VI sec. d.C., per non parlare poi della triade museale voluta da papa Gregorio XVI, il Gregoriano Egizio, il Gregoriano Etrusco, e il Gregoriano Profano.

L’interesse si era allargato, poi, soprattutto attraverso la presenza dei missionari, anche a civiltà lontane come la latino-americana, l’australiana, l’asiatica, l’africana e così via. Nasceva, così, un suggestivo e ricchissimo Museo Etnologico vaticano, riallestito in questi ultimi anni da p. Nicola Mapelli. A lui si deve ora con un titolo emblematico – che è anche quello assegnato al Museo – l’affascinante volume Anima mundi, dotato di un’iconografia emozionante. Si tratta di una sorta di visita panoramica in quelle sale piene di sorprese.

Sfilano, infatti, statue di divinità, uomini e animali, maschere cerimoniali, dipinti, scettri, dischi, testi miniati, abbigliamenti rituali, strumenti sacrificali, reliquiari, ornamenti vari e tanto altro. È un’esperienza che conferma l’intreccio forte tra archeologia, antropologia culturale, etnologia, scienze umane in genere e gli stessi processi storici e culturali, come è stato proposto al riguardo dalla New Archaeology di Lewis R. Binford. Inoltre, com’è risaputo, con Michel Foucault e la sua Archeologia del sapere (1969), la ricerca e la metodologia archeologica si è trasformata in un paradigma ermeneutico-simbolico per altre discipline (si pensi anche a Georges Dumézil e a Marc Bloch). Per concludere, forse può valere una battuta del primo romanzo di Truman Capote, Altre voci, altre stanze (1948): «Hai mai sentito quello che dicono i saggi? Tutto il futuro esiste nel passato».