Come son fatti occhi, mani e piedi di Dio

da Il Sole 24 Ore – 27 novembre 2022 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi affronta il tema dell’antropomorfismo teologico.

Sarà per alcuni sconcertante, ma il Dio della Bibbia ha mani, braccia, piedi, orecchie, naso sbuffante, dialoga, passeggia in un giardino, ride, fischia, pigia l’uva in un torchio, si adira, si pente, si corregge e cambia parere, sorride, è geloso, offre persino coppe di vino drogato e così via, fino a diventare un uomo in carne e ossa, iscritto a un’anagrafe imperiale romana, con Gesù di Nazaret, figlio di Dio. Sigmund Freud ne era quasi disgustato e riteneva l’antropomorfismo teologico, per di più maschile, un approccio «palesemente infantile», ma era scontento anche dell’antipodo spiritualista che riduce Dio a un «principio impersonale, vago, astratto» (così nel Disagio della civiltà del 1929).

Uno dei più eminenti storici dell’antichità cristiana, in particolare dello gnosticismo, Christoph Markschies della berlinese Humboldt-Universität, ha approntato sul tema del «corpo di Dio» un saggio rigoroso eppur gustoso, capace di isolare tutte le pieghe teoriche e storiche di questa analogia teologica che, se sottoposta a una corretta ermeneutica aliena dalle pastoie paludose del fondamentalismo, risulta tutt’altro che arcaica, primitiva o ingenua. Non bisogna poi ignorare che nell’antropologia biblica noi non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo, nella compattezza (non dualistica, come accade nella classicità platonica) di fisicità e spiritualità, di Körper anatomico e di Leib cosciente e relazionale, per dirla alla tedesca.

Quello che lo studioso propone è un viaggio dai percorsi ramificati, la cui mappa ha come primo itinerario i dati della Bibbia ebraica e della sua antica versione greca detta dei Settanta, dati che sfociano non solo nel successivo giudaismo ma soprattutto nel cristianesimo. Subito dopo, si è condotti nel vasto orizzonte della cultura greco-romana pagana con un’interessante immissione nei sentieri della devozione popolare quotidiana. Parlavamo di ramificazioni che possono sembrare divagazioni: in realtà, anche le concezioni corporee dell’anima umana costituiscono un parallelo prezioso per l’asse centrale su cui è impostato l’essere divino (tra i tanti esempi, attrae il «corpo astrale» dell’anima secondo i neoplatonici).

Un vero e proprio viale in cui inoltrarsi reca, però, la targa della mistica giudaica che ha il suo emblema nella raccolta Shi’ur Qoma, letteralmente «misura della figura» o «dimensione della forma» del corpo divino, un’opera dalla genesi complessa ed eterogenea. Dovendo commentare anni fa il biblico Cantico dei cantici, soprattutto nel c. 5 ove si ha una rappresentazione poetica dell’amato secondo un canone statuario crisoelefantino, ci eravamo dedicati alla lettura stremante di questa vertiginosa opera giudaica. Applicata a Dio, quell’immagine corporale veniva computata secondo una curiosa unità di misura, la persiana «parasanga» di fluida estensione oscillante tra estremi esagerati e minimali (dal diametro del mondo alla spanna di una mano). Siamo, quindi, in presenza di un sistema mitico e misterioso di circoscrizione del corpo divino e del suo mondo celeste, simbolo dell’infinito.

Il viaggio ci conduce poi in un altro territorio vasto e polimorfo, quello della teologia cristiana tardo-antica con una panoplia di autori (Melitone, Ireneo, Lattanzio, Eusebio di Emesa, Agostino), ma soprattutto col capitolo sorprendente della controversia «antropomorfita», illustrata da Markschies attraverso un’imponente documentazione. Si tratta di uno scontro dialettico con una religiosità realistica che, agli occhi degli oppositori, correva il rischio di scivolare nell’idolatria o nel materialismo teologico. Ovviamente questo percorso ha sullo sfondo e come approdo la cristologia con l’intreccio unitario tra le due nature, la divina e l’umana, con l’indubbia pesantezza corporea del Cristo dei Vangeli, ma anche con l’inattesa svolta del corpo del Cristo risorto (che varca le porte chiuse ma che mangia pesce arrostito e si fa toccare le ferite da Tommaso).

Qual è il succo finale di questa imponente ricerca (la sola «bibliografia secondaria» occupa quasi cento pagine!) dai contorni imbarazzanti eppure attraenti? Tra le varie risposte lo studioso ne esalta una di taglio antropologico, ossia la conseguente valorizzazione della sacralità della persona umana e, quindi, della sua dignità. Certo, la cultura contemporanea secolarizzata rinuncia a questa fondazione trascendente optando per altre motivazioni. Tuttavia la concezione teologica conserva tutta la sua potenza: il corpo umano, che è al vertice dell’opera creatrice divina, sa dire di Dio qualcosa di profondo ma anche di accessibile.

È questa una via per giustificare l’asserzione della Genesi riguardo all’uomo «creato a immagine di Dio» (1,27). Viene spontaneo, allora, suggerire un altro ampio saggio, che solo evochiamo, dal titolo esplicito: L’umano, immagine filiale di Dio. Il teologo svizzero Christof Betschart, sottoponendo quel passo e i suoi corollari biblici a un’analisi serrata, appoggiandosi all’apporto della dottrina del Concilio Vaticano II e di un grande teologo come Henri de Lubac, propone una lettura cristologica del tema. Per induzione, dalla figura umana di Cristo, il Figlio, si ascende al Padre, riconoscendo che l’uomo e la donna partecipano di quella filiazione. Sono, quindi, epifania del divino che è rispecchiato in essi, perché ne sono appunto l’«immagine» vivente.