Chi ha paura dell’intercultura? Come dialogare in Europa

Pensiero e azione per riprendere il dialogo in Europa, partendo da Ratisbona

 

Lo speciale “Quel che resta di Ratisbona” è a cura di Gabriele Palasciano. Testo di  Maddalena Colombo*.

 

[…] Non vi è dubbio che il 2015 possa essere ricordato come annus horribilis per quanto riguarda gli scambi tra le culture e la discussione sui fondamenti del vivere civile in società sempre più complesse e ‘porose’, cioè aperte alla mescolanza umana (la cosiddetta mixité). Prendiamo l’Europa come area di riferimento, una delle società economicamente più dinamiche e consolidate dal punto di vista sociale, e guardiamo alla cronaca recente.

In primo piano c’è la consapevolezza della lunga durata dell’emergenza profughi, che sta assumendo i contorni di una diaspora di massa provocata dalle numerose turbolenze che si sono verificate in Medio Oriente e in molte parti del continente africano; all’Italia toccano gli effetti della sea route (Unhcr, 2015), ma sappiamo che i flussi immigratori seguono anche la via balcanica, quella aerea ecc. ed investono ormai tutti i paesi membri dell’Unione. Si sta prendendo coscienza, pur in ritardo e con sguardi più o meno prospettici, che non sarà un fenomeno temporaneo bensì strutturale: questo già trasforma un’evenienza in una minaccia. La marea umana che entra ed esce dai confini degli stati mette a dura prova non solo il Trattato di Schengen, cioè uno dei principi fondativi dell’Unione, ma anche la capacità dei cittadini di ritenersi in grado di accogliere, ospitare, prestare cure e attenzioni agli altri (Ricoeur, 2013); anche perché se questi popoli chiedono speranza, la congiuntura in cui gli europei si dibattono ora ne ha ben poca da offrire. I movimenti in entrata nel ‘vecchio continente’, dopo l’eccezionalità dei primi soccorsi, delle morti in mare, dello stupore delle masse in cammino ecc., hanno smesso di sorprenderci; ci si sta abituando anche ai campi profughi, alle bidonville di sfollati lungo le coste, ai confini ecc., come avviene a Calais, in Sicilia, lungo il confine Austria-Ungheria, ecc. Ma sappiamo bene che la questione profughi pone sfide serissime ai nostri sistemi di pensiero, alle regole democratiche della cosiddetta “cittadinanza europea”, alle buro-tecnocrazie che la definiscono e la governano.

La presenza di richiedenti asilo nei luoghi di transito o nelle piccole realtà locali genera scompensi e turbamenti dove già faticosamente, nella quotidianità, si riesce a trova un proprio equilibrio. Ogni diversità nuova si aggiunge alle molte diversità già in essere e già tollerate, e risveglia intolleranze, mette in luce le manchevolezze, ambiguità, gli ideali sconfessati di intere categorie sociali (Zanfrini, 2012). È facile, in questo regime di incertezza, utilizzare lo ‘schema delle soglie massime’ e pensare in modo unilaterale che le migrazioni devono finire, rientrare, essere impedite, ecc., senza rendersi conto di come i movimenti umani nello spazio globale siano tutti concatenati. Anche una minima reazione (se positiva, ma ancor più se negativa) in ambito locale può suscitare una conseguenza non voluta su scala regionale o globale. Si pensi alla decisione dei Paesi dell’Europa dell’est di erigere muri per fermare l’esodo verso Nord-ovest; ogni mossa nello scacchiere geopolitico implica una ripercussione a livello istituzionale, culturale e simbolico su tutta la comunità internazionale, sulla vita dei singoli ma anche sull’idea stessa di Europa e di europei.

Il secondo fattore di pressione che il 2015 ha portato con sé riguarda l’escalation del terrorismo e il suo avvicinarsi e penetrare nella quotidianità di un’area geografica ed economica sostanzialmente pacifica come l’Europa. La ribalta internazionale che stanno assumendo le violenze terroristiche, portate avanti dall’Isis e dai gruppi collegati, e i discorsi mediatizzati che le descrivono, le illustrano, le ‘individuano’ come gesti che fanno parte della vita normale (diventano qualcosa che ‘ci si aspetta’ da un momento all’altro), stanno lentamente portando a falsare il punto di vista degli europei. Vi è una tacita sovrapposizione tra fanatismo, di cui sono espressione gli attentati, e affermazione religiosa associata alle forme più integrali o fondamentaliste. Cioè tra violenza e religione. Le due cose non sono affatto identiche, né simili: vi è sì una concezione religiosa integralista, in base alla quale la società, la politica, la cultura devono essere modellate secondo le norme della religione; vi sono anche approcci fondamentalistici, secondo cui il testo sacro (Bibbia, Corano o altro) va preso alla lettera e non si riconoscono come validi quei comportamenti che sono espressione di mediazioni storiche e di processi di secolarizzazione. Tutto ciò, però, non ha nulla a che fare con la violenza: il fanatismo, che non è solo religioso ma è anche politico, culturale, sessuale ecc., esercita violenze di ogni genere e discriminazioni radicali, mette a rischio i diritti fondamentali dell’uomo, favorisce adesioni irrazionali e incondizionate a sistemi chiusi di pensiero, con conseguente intolleranza verso qualsiasi diversità di mentalità, e la ferma volontà di soppressione dell’Altro fino al prezzo della propria vita. […]

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* Maddalena Colombo è professore associato di sociologia dei processi culturali e comunicativi alla facoltà di scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. È, inoltre, direttrice del CIRMIB (Centro di Iniziative e ricerche sulle migrazioni di Brescia) e direttrice del LARIs (Laboratorio di ricerche e intervento sociale). Per maggiori informazioni sulla sua attività accademica e scientifica: http://docenti.unicatt.it/ita/maddalena_colombo/