Cantare Dio, ma in rima

da “Il Sole 24 Ore” – 22 aprile 2018 – di Gianfranco Ravasi.

Avanzare su un crinale piuttosto netto e tagliente di una cresta montuosa non è facile. È ciò che vogliamo fare ora metaforicamente, procedendo tra fede e arte, un connubio che ha alle spalle secoli e capolavori assoluti. Gli esempi che scegliamo ora, tenendo conto dei due versanti di quel crinale, sono però modesti e limitati, trattandosi solo di evocazioni casuali, legate alla contingenza di qualche pubblicazione. Partiamo con uno sguardo d’insieme, sia pure settoriale.
Un’importante studiosa come Daniela Marcheschi, che ora insegna all’università di Lisbona, conosciuta per un’ampia bibliografia nella quale spiccano i suoi studi su Collodi, allestisce un’antologia che abbraccia l’arco di un millennio di poesia religiosa italiana, partendo naturalmente da Francesco d’Assisi per approdare ai nostri giorni con molti poeti noti e altri, almeno per me, del tutto ignoti (c’è una poesia che è persino datata 22 febbraio 2017). Ma anche nell’itinerario codificato del passato, Marcheschi fa emergere dal fondale (e persino dalla polvere) molte figure che hanno avuto una scarsa ribalta e che qui si ritrovano accanto ai busti venerati di Dante, Petrarca, Boiardo, Bembo, Ariosto, Tasso, Metastasio, Parini, Monti, Manzoni, Leopardi, Carducci, Pascoli, Rebora, Pasolini e così via, tanto per citare qualche nome a caso tra i 133 antologizzati.
È, comunque, un’esperienza molto suggestiva viaggiare in questo arcobaleno di voci (per altro, non di rado anche femminili, a partire dal ’500), soprattutto per cercare di identificare quella categoria così fluida e mobile che è l’esperienza religiosa. Marcheschi ne dà una definizione altrettanto dinamica e sfumata, appoggiandosi a Durkheim: «Tutto ciò che suscita stupore e ascolto del mondo, fragilità e forza, un sentimento imperscrutabile di comunione fra l’individuo, i suoi simili, le cose visibili e invisibili» (arduo è, comunque, evitare qui il termine Dio, o il trascendente e i referenti teologici, che l’autrice, però, evoca nella sua introduzione). A proposito di referenti sacri, ecco due esempi molto intriganti. Essi si allineano ad altre sinossi offerte a più riprese dalla sempre creativa editrice protestante Claudiana.
Ecco innanzitutto Khalil Gibran, un autore libanese così popolare in Occidente da essere divenuto l’involucro per ogni buon sentimento o realtà quotidiana: confesso di rabbrividire tutte le volte che, nelle celebrazioni nuziali gli sposi o i testimoni in finale o anche nella cerimonia, cominciano a leggere il suo canto sulla pur giusta verità dell’identità dell’unità matrimoniale, verità incartata però in un foglio spesso e colorato di retorica e di enfasi. Sta di fatto che, comunque, a palati non particolarmente esigenti le sue riflessioni poetiche riescono a offrire spunti sulla vita, l’amore, i figli, il lavoro, la casa, la legge, il dolore, la gioia, il tempo, la preghiera, la morte e così via, persino sul vestito e il cibo. Ebbene, Stefano Giannatempo, che è un pastore valdese, vuole sostanzialmente rivelare la filigrana biblica che s’intravede nelle pagine del Profeta, l’opera principe di Gibran (che riconosco di aver anch’io in passato introdotto, soprattutto per questa sua apertura al dialogo interculturale e interreligioso).
Ma la caratteristica sottolineata è quella dell’essere un poeta che tende ad abbracciare i grandi temi universali, sia pure con uno sguardo di superficie. Egli lo fa con un linguaggio che suona come una musica orientale avvolgente e coinvolgente, che ricorre a immagini e a simboli comuni ma sempre «damascati». Per questo è possibile – come fa Giannatempo – riprendere ogni testo con nuove «preghiere» che il commentatore lega alla nostra contemporaneità anche da smartphone. Una scossa alla pacatezza gibraniana ci viene inflitta, invece, da un personaggio come Bruce Springsteen. È un giornalista, Luca Miele, a ricostruire in modo molto accurato e raffinato il palinsesto evangelico del rocker statunitense che veleggia ormai verso i settant’anni.
L’acribia di Miele ci permette un sorprendente viaggio testuale e musicale nell’opera di «The Boss», individuando non solo le matrici spiritual e l’intreccio col folk, ma soprattutto il metatesto biblico e il confronto spesso dialettico con la fede. Il cantante, infatti, non teme di inoltrarsi nei terreni minati dell’utopia, della morte, della risurrezione, dell’amore tenebroso, del demoniaco e della magia. Quella sua corsa, che inizia col famoso Born to Run del 1975 e che conosce anche una Thunder Road e l’oscurità della Darkness of the Edge of Town, punta però verso una Promised Land in cui il cantante dice di «credere», una Land of Hope and Dreams. Ma la complessità di questo percorso è tale da esigere una mappa minuziosa eppure attraente com’è quella pazientemente ricomposta da Miele, che si rivela uno straordinario esegeta ed ermeneuta di questa figura ormai «classica» nella musica rock contemporanea.
A questo punto concludiamo ricorrendo a due voci che, in proprio, coniugano fede e letteratura. La prima è remota perché siamo nel X secolo europeo. È Rosvita di Gandersheim, la prima poetessa medievale germanica, una canonichessa la cui temperie mistica non le ha impedito di conoscere e di intervenire nella vita mondana del suo tempo. Siamo, allora, grati, ad Anna Maria Sciacca che ha tradotto dal latino e ha commentato le Leggende e Drammi sacri di questa donna che è stata ammirata nientemeno che da Anatole France e Antonin Artaud. Eppure le otto sue «leggende» puntano su soggetti come Maria e la sua maternità, l’ascensione di Cristo e i martiri cristiani e le loro «passioni», mentre i sei drammi hanno sostanzialmente lo scopo di celebrare «la lodevole purezza delle caste vergini», tenendo però curiosamente come riferimento letterario il Terenzio classico. È la stessa Rosvita a confessarlo: «Io, voce altisonante di Gandersheim, non ho disdegnato di imitare Terenzio, dato che altri lo onorano con la lettura, affinché con lo stesso tipo di intonazione stilistica, con cui si recitavano i vergognosi incesti di donne lascive, sia celebrata la lodevole purezza delle caste vergini, secondo le possibilità del mio ingegno».
L’altra voce, anch’essa remota ma solo geograficamente, è quella dello scrittore giapponese Endo Shusaku (1923-1996), convertitosi al cattolicesimo a 11 anni, autore di quel Silenzioche è stato rispolverato in occasione del film che da esso ha tratto Martin Scorsese nel 2016. Ora è di nuovo proposta la sua opera più celebre e veramente alta, una Vita di Gesù, pubblicata nel 1973 e già tradotta in italiano nel 1977. Non si creda di essere di fronte allo scritto ardente di un neo-convertito: questo Cristo giapponese è, invece, molto «carnale», realistico, dalle mani callose, dai piedi impolverati e dagli occhi tristi, tutt’altro che alonato dalla luce del Sol Levante, eppure capace di essere sempre contemporaneo e liberatore per tutti.