Un Servita con tre vite

da “Il Sole 24 Ore” – 13 novembre 2016 – di Gianfranco Ravasi.

«Aver ragione troppo presto equivale ad avere torto». Questo aforisma delle Memorie di Adriano della Yourcenar potrebbe spiegare una parte notevole del filo biografico di p. David Maria Turoldo, il famoso frate dei Servi di Maria, poeta, scrittore, giornalista, conferenziere, predicatore itinerante, persino autore e regista teatrale e cinematografico (Gli ultimi), liturgista e soprattutto testimone (con tutte le iridescenze semantiche che custodisce in sé questo vocabolo). La sua esistenza, infatti, avventurosa e gloriosa è stata segnata da questa capacità propria dei profeti e dei geni di stare coi piedi nella polvere del presente ma col capo che già intuisce limpidamente il futuro e lo precorre. Si comprendono, così, i continui incontri e scontri che segnarono la traiettoria, tutt’altro che lineare, della sua vicenda personale, un fiume – come ebbi occasione di dirgli un giorno – simile al Giordano che, per superare i 104 km in linea d’aria tra il lago di Tiberiade e il Mar Morto, ne impiega in realtà più di 300.

Sì, da quel mercoledì 22 novembre di cento anni fa, quando vide la luce tra le zolle friulane di Coderno, un’origine da lui mai dimenticata, fino a quel mattino di giovedì 6 febbraio 1992, quando si spense nella clinica milanese San Pio X, Turoldo non visse solo poco più di 75 anni ma almeno un ciclo di tre vite comuni, tanto fu intenso il suo kairós, il tempo esistenziale personale, rispetto al chrónos computato fisicamente dagli orologi (per usare una distinzione cara al greco neotestamentario). Per questo si comprende quanto sia arduo stendere la biografia di una simile figura che ha inciso un solco profondo nella storia della Chiesa, della cultura, della società e della stessa politica, con risonanze internazionali: ad esempio a Stoccolma, nel 2012, durante un «Cortile dei Gentili» nell’Accademia delle Scienze un suo ammiratore e traduttore mi con segnò una rivista svedese appena edita con un saggio sulla poesia e la fede di Turoldo, mentre in passato persino Gorbaciov aveva interloquito con lui.

Per lui – sia pure con le necessarie distanze e differenze – vale, dunque, quanto si affermava nella Vita di Goethe di Bernard Groethuysen: «Alcune biografie possono essere una storia universale». Proprio per questo si rimane non solo ammirati ma stupiti di fronte al ritratto della “vita e testimonianza” turoldiana elaborato da Mariangela Maraviglia. E se è permessa una sottolineatura personale, essendo stato nella fase ultima dell’esistenza di p. David non solo un suo consulente biblico e “culturale” ma soprattutto uno dei suoi amici più cari e intimi, devo assegnare all’opera imponente di questa studiosa un primato assoluto per completezza, rigore, finezza. La sua è stata una navigazione lungo il percorso sinusoidale della vita del frate servita che – come sopra si diceva – comprendeva ramificazioni, anse, esondazioni e secche tanto da triplicarne il normale itinerario.

Ma l’autrice non ha esitato anche ad avventurarsi in quel mare testuale che lo scrittore Turoldo ha alimentato ininterrottamente, intrecciandolo con l’oceano della sua fede paradossalmente mistica e combattente, da cella conventuale e da piazza, così da confermare l’icastico e citatissimo motto di Carlo Bo: «Padre David ha avuto da Dio due doni: la fede e la poesia. Dandogli la fede, gli ha imposto di cantarla ogni giorno». Mariangela Maraviglia ha dovuto inoltrarsi anche nel groviglio delle tensioni intra-ecclesiali: i moniti dell’allora S. Uffizio, le reazioni turbolente ai suoi scritti e alla sua predicazione, la posizione assunta nel referendum sul divorzio, la polemica con Comunione e Liberazione che gli meritò persino di ricevere «un assegno da 30 denari», come egli stesso ha confessato, le appassionate consonanze con Nomadelfia e Bose ma anche i successivi distacchi, il caloroso e impetuoso legame con la sua comunità religiosa, i Servi di Maria, ma anche le incomprensioni e i contrasti, il vagabondare partendo dalla sua amata fraternità milanese di S. Carlo al Corso per approdare a Innsbruck, Monaco, Firenze, Londra, Canada, New York e così via, secondo quel monito che p. David attribuiva al card. Ottaviani, il ferreo custode vaticano dell’ortodossia, nei suoi confronti: «Fatelo girare, perché non coaguli».

Ma nelle pagine di questa biografia si disegna anche tutto il fondale socio-politico e culturale di quei decenni che fioriscono dal secondo conflitto mondiale e dal fascismo, crescono nel dopoguerra

pieno di fermenti e si allargano agli anni conciliari nei quali la figura di Turoldo diventa un riferimento imprescindibile per uno stuolo di credenti, di agnostici, di politici, di intellettuali e di gente comune che accorrevano ad ascoltarlo (soprattutto nell’abbazia di Fontanella a Sotto il Monte, il paese di papa Giovanni XXIII) e che lo leggevano con passione. Il fascino della sua personalità nasceva anche dal suo «oscillare tra pietà e furore, tra fedeltà e ribellione». Proprio per questa sua ricerca di senso più che di consenso, per la sua libertà sincera e il suo amore per la Chiesa autentica, egli rigettava «tre aggettivi: prete di sinistra, moderno, scomodo, tre chiodi di una crocifissione non riuscita».

Agli amici di sempre (don Mazzolari, p. Vannucci, p. Camillo de Piaz, p. Fabbretti, p. Balducci, Lazzati, La Pira, Santucci, Gozzini, Bo, Angelo Romanò, Arturo Paoli, e così via) si aggiungeva un orizzonte impressionante di interlocutori “laici”, esponenti della cultura e della società verso cui egli si rivolgeva senza imbarazzi ma anche senza ansie di proselitismo. Emblematica la vicenda dei funerali di Pasolini con la sua partecipazione, unico prete, leggendo un’emozionante lettera da lui indirizzata alla madre, accompagnata dall’indignazione per l’assenza di pietà di tanti uomini di religione nei confronti dell’autore del Vangelo secondo Matteo. Gli anni finali, ugualmente densi di impegni nonostante il “mostro” del cancro insediato  nelle sue viscere, furono i più luminosi, soprattutto per l’incontro­abbraccio col card. Martini e col suo ritorno alla poesia più pura, spesso segnata in filigrana dalla Bibbia, che era stato il palinsesto costante di tante sue pagine, e resa ardente dalle interrogazioni teologiche estreme attestate in quei gioielli che sono i Canti ultimi e Mie notti con Qohelet.

Vorremmo, allora, concludere proprio con la sua voce che sia ffaccia sul “cratere” del mistero o che risuona lungo i “fiordi” del mare ove avanzano Dio e il Nulla, «se pure l’uno dall’altro si dissocia» perché «Tu non puoi non essere/ Tu devi essere, / pure se il Nulla è il tuo oceano». È il Dio assente, «bianca statua di marmo della notte», che il Figlio stesso, Gesù Cristo, sperimenta sulla croce perché «fede vera è il venerdì santo /quando Tu non c’eri lassù». Inquietudine, persuasione, speranza è la trilogia perfetta che Mariangela Maraviglia mette a suggello del suo straordinario ritratto di Turoldo credente, poeta e testimone. Io che ho raccolto tante sue confidenze, immagino la sua gioia se avesse potuto partecipare alla Chiesa di papa Francesco. Infatti, nella sua quasi autobiografica La mia vita per gli amici a cura di M. Nicolai Paynter (Mondadori 2002), ne anticipava alcune parole: «Ame interessa la scelta distare dalla parte dell’“uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico”, capitato in una società di ladri, caricato di ferite, spogliato e lasciato mezzo morto ai margini della strada… Questo non è essere di sinistra!».