Un agnostico affascinato dalla fede

da Il Sole 24 Ore – 29 gennaio 2023 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi offre un ritratto inedito dello scrittore argentino Jorge Luis Borges.

Si muoveva nelle acque del mare Mediterraneo antistante l’Egitto, assumeva le forme più svariate di serpente, leone, albero, fiamma, acqua corrente ed era il custode delle foche e delle bestie marine. Stiamo evocando una divinità minore mitica, Proteo, alle dipendenze del re dei mari Poseidone, e chi ha la consuetudine con la letteratura classica ne ricorderà la presenza poetica nel IV canto dell’Odissea e nel libro IV delle Georgiche virgiliane, per non parlare poi del suo necessario occhieggiare nelle Metamorfosi di Ovidio. Tra i suoi “devoti” dobbiamo segnalare Jorge Luis Borges e ciò non stupisce, dato il carattere metamorfico, proteiforme appunto, della sua visione dell’essere e dell’esistere e della sua stessa letteratura.

Anzi, al di là delle sue biblioteche babeliche, dei labirinti delle sue Ficciones e del suo universo letterario «fluido y cambiante», egli era convinto che lo stesso «lettore è uno e molti uomini», proprio come scriveva nella poesia intitolata ovviamente Proteo della raccolta La rosa profunda del 1975. Parte da qui per elaborare il suo splendido saggio sull’agnosticismo e la fede poetica di Borges un’accademica di Buenos Aires, Lucrecia Romera, che è stata visiting professor in molte università, tra le quali anche la nostra Sapienza. È all’inafferrabile opera dello scrittore argentino che lei pone gli interrogativi più ardui, cercando di squarciare la coltre non così robusta del suo scetticismo/agnosticismo.

Tra l’altro, lui stesso confessava che «i cattolici credono in un mondo ultraterreno, ma ho notato che di esso non si interessano. A me accade il contrario: mi interessa, ma non ci credo». Se è lecita una testimonianza personale, per due volte, a La Plata e a Cordoba in Argentina, ho avuto l’occasione di dialogare pubblicamente con Maria Kodama, la moglie amata dello scrittore, e sempre il discorso era centrato su Jorge Luis Borges y la experiencia mística, che è divenuto poi il titolo di un suo saggio pubblicato nel 2015 sulla rivista «Proa 22» di Buenos Aires. Abbiamo, poi, avuto occasione altre volte su queste pagine di rievocare il sorprendente legame tra lo scrittore e l’allora p. Jorge Bergoglio, docente in un collegio a Santa Fe.

Romera imposta la sua ricerca su una sorta di dittico la cui prima tavola è fondamentale e la titolatura è lapidaria: Los Evangelios según Borges. È noto, infatti che – pur nella sua onnivora capacità di lettura – ribadiva sempre di avere due stelle folgoranti nel suo cielo, la Bibbia (e soprattutto i Vangeli) e Dante, proprio per quella sua passione nei confronti dell’oltrevita infernale e celestiale. Tre sono i testi poetici che la studiosa analizza in modo raffinato e affascinante, intarsiando le sue pagine di rimandi preziosi alle opere borgesiane. È curioso notare che questi tre brani poetici sono semplicemente intitolati con altrettante citazioni di versetti biblici.

Così, Juan, I, 14, il poema più complesso e “teologico” ordinato in ben dieci sequenze, affronta il nodo capitale della cristologia: «Il Verbo divenne carne». È inutile dire che, agli stessi occhi di un teologo che sappia varcare il castello dei simboli e gli spuntoni dei paradossi, le intuizioni che gemmano da quei versi sono sorprendenti, tant’è vero che Romera li definisce «una teodicea poetica». Dopo tutto non si deve dimenticare che il Verbo, la Parola, secondo Borges, «era all’inizio principio magico e la missione del poeta è quella di restituire la sua primitiva e ora occulta virtù».

La provocazione cristiana sta nell’aver compattato questa trascendenza con la carnalità immanente creaturale. Tanto viene decifrato nei versi di questo poema che apre la raccolta più famosa borgesiana, L’elogio dell’ombra (1969), ma dobbiamo in questo poco spazio rimandare il nostro lettore agli altri due passi evangelici posti “in capite”. C’è innanzitutto Mateo, XXX, 30, la cupa finale della parabola dei talenti: «Il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre: là sarà pianto e stridore di denti». Questo «versículo admonitorio» lacera il velo di quell’oltre che dicevamo attrarre il poeta il quale non esitava a interrogarsi così altrove: «Che cosa sono io? Lo saprò il giorno ulteriore e successivo all’agonia».

Infine, sempre su quel crinale che s’affaccia sull’escatologia, ecco Lucas XXIII che mette in scena il malfattore pentito crocifisso accanto a Gesù: «Nella sua fatica ultima di morire crocifisso, / udì, tra i vilipendi della gente, che colui che moriva accanto a lui / era un dio e gli disse ciecamente: Ricordati di me quando sarai / nel tuo regno! E la voce inconcepibile / che un giorno giudicherà tutti gli esseri / gli promise dalla Croce terribile / il Paradiso. Nient’altro si dissero / finché venne la fine».

Abbiamo parlato di un dittico: possiamo solo citare l’immensa seconda tavola cara a Borges, quella dei Vangeli apocrifi, cioè «occulti» e non «falsi», come sottolinea, e dei quali è lui stesso creatore, testimoniando che la fede “poetica”, cioè creativa, è sorella della fede religiosa. È per questo che confessava: «Anelo al vasto respiro dei Salmi». Resta, quindi, sempre ferma la sua convinzione: «Gli uomini lungo i secoli hanno ripetuto costantemente due storie: quella di un vascello sperduto che cerca nei mari mediterranei un’isola amata, e quella di un Dio che si fa crocifiggere sul Golgota».