Digito,
chatto ergo sum

da Il Sole 24 Ore – 5 febbraio 2023 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi propone una riflessione sul rapporto tra fede e tecnologia.

Come spesso gli accadeva, Umberto Eco era un creatore di formule folgoranti: nel 1964, sintetizzando i codici della comunicazione artistica, aveva coniato il binomio ossimorico di Apocalittici e integrati. Questa polarità si ripresenta anche ai nostri giorni davanti all’avanzata trionfale della cultura tecnologica. Già nel 1920 Ernst Jünger s’era iscritto in anticipo nella prima categoria con un titolo altrettanto fulminante, Nelle tempeste di acciaio (Guanda 2000) ove pronosticava la metamorfosi della persona umana nell’ingranaggio di una macchina e l’epifania di «macchine dotate di vita autonoma». Lunga è stata la lista degli esorcisti “apocalittici” di questo rischio, soprattutto nei nostri giorni posti all’insegna del mantra dell’«intelligenza artificiale» o della «cultura digitale».

Al polo opposto, ecco la folla plaudente all’«antropoiesi biotecnologica», pienamente “integrata” nel nuovo orizzonte, erede forse inconsapevole dell’oracolo dello Zarathustra di Nietzsche che, già nel 1883, preconizzava la nascita di «una nuova bella specie» di uomini superiori. E, per stare alle formule lapidarie, Mark Tegmark del Mit di Boston annunciava la nuova Vita 3.0 (Cortina 2017), preludio del trans-/postumanesimo. A questo punto emerge la domanda scontata: è possibile evitare l’iscrizione a uno dei due estremi, scegliendo – non per analogia politica – un centro ove la critica fondata e l’adesione sorvegliata coesistono?

È ovvia la risposta positiva, sulla scia dell’antico pensatore ebreo di Alessandria d’Egitto Filone (I secolo) che classificava il sapiente come methórios, cioè colui che sta sui confini, consapevole delle differenti cause in gioco. Questa via è imboccata da un esemplare mini-saggio di uno dei nostri più acuti e autorevoli teologi moralisti, Giannino Piana, che ha alle spalle una bibliografia ampia e qualificata, talora segnalata anche in queste pagine, frutto di un confronto sollecitato dalla sua docenza universitaria. Dell’era digitale e del relativo nuovo «mediantropo» egli propone ora una lettura condotta tenendo fisso lo sguardo alla costellazione triadica dell’antropologia, dell’etica e della spiritualità (quest’ultima non solo religiosa ma anche laica).

Questa trilogia valoriale regge la struttura del suo testo, prosciugato ma non schematico, trasparente ma non semplificato, coinvolto nelle nuove questioni ma non connivente a priori. L’essenzialità dello scritto, che acquista i contorni di un prezioso status quaestionis ma anche di un’ermeneutica di questo panorama di mutamenti socio-culturali, esime da una presentazione sintetica. È, allora, più significativo selezionare – in queste poco più di cento paginette del tipico formato ridotto dell’editrice Interlinea – alcuni spunti che aprono orizzonti molto più ampi.

Il primo, nell’ambito vasto della cultura digitale, pone l’accento sull’incidenza che essa ha nella vita interiore delle persone con «la riduzione dell’uso di alcune fondamentali facoltà soggettive, col pericolo di una loro vera e propria perdita e il venir meno della privacy». A questo proposito Piana rimanda a un’illuminante analisi sintetica del nostro «gemello digitale» offerta da due noti studiosi del fenomeno di atrofizzazione delle nostre facoltà soggettive in tale contesto, Dietrick De Kerkhove e Maria Pia Rossignaud. Un altro tema capitale è ovviamente quello dell’intelligenza artificiale dall’indubbia rilevanza non solo teorica, ma soprattutto operativa.

Il trionfo delle potenzialità cognitive, dei processi di elaborazione di algoritmi sempre più complessi e generativi di dati, della riduzione del «sudore della fronte» umana nelle attività reiterative e meccaniche e così via, non deve però accantonare come marginali altre derive pesanti. Si pensi solo alla contrazione sociale degli spazi di lavoro personale e alla disumanizzazione dei processi bellici con i cosiddetti killer robot, sistemi militari offensivi totalmente autonomi. Un ulteriore spunto che suggeriamo al lettore del volumetto di Piana è quello più teorico ma decisivo dell’individuazione di un concetto di base riguardante la natura umana.

Detto in altri termini, è possibile delineare un’antropologia umanistica con il suo parallelo etico che abbia un’identità condivisa? Le riflessioni offerte sono molto suggestive e costituiscono il nerbo dell’intera ricerca che si affida al discernimento posto all’insegna di due stelle di riferimento, la prudenza e la responsabilità. Quest’ultimo termine è particolarmente significativo perché implica un «rispondere all’altro» e non solo a sé stessi, provocando così il superamento di un’antropologia individualista. Si configura in tal modo la necessità della relazione nella sua triplice ramificazione: verso l’altro/diverso, verso il creato e, in sede religiosa (ma non solo), verso il trascendente, l’oltre.

A questo fattore costitutivo della soggettività Piana dedica pagine molto intense che mettono sul tappeto questioni di impatto etico, come quelle dei diritti e doveri, dei processi manipolativi, del «peso delle azioni», della spiritualità. Senza elidere l’ego sum connesso al cogito cartesiano tipico dell’identità personale, è indispensabile coniugare con l’agire l’ego cum proposto da Jean-Luc Nancy. Tanto altro è offerto in questo piccolo saggio che si rivela come il succo di una lunga ricerca e del magistero di questo importante studioso e teologo morale.