Sante monache nel deserto

da Il Sole 24 Ore – 5 maggio 2019 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinale Gianfranco Ravasi esamina la vita di fede di alcune “madri della chiesa” che operarono nei primi secoli del Cristianesimo in Egitto, Palestina, Siria e Cappadocia.

Un amico libanese, originariamente medico, divenuto poi un intellettuale e alla fine sacerdote e vescovo, un giorno stava parlandomi della vicenda della sua vocazione e riconosceva che la principale difficoltà familiare nasceva dal fatto che egli fosse figlio unico. Un po’ sorpreso, gli replicai: «Altre volte mi hai parlato delle tue sorelle». La risposta fu spontanea e un po’ inconsapevole: «Ma loro sono donne!». L’asse familiare era assicurato solo dalla linea maschile, un dato in verità non del tutto alieno anche a certi settori della nostra società. Eppure le cose non sono sempre state così, tant’è vero che, per dimostrarlo, una monaca della comunità di Bose, Lisa Cremaschi, si è inerpicata risalendo fino al IV-VI secolo, e si è incamminata verso l’Egitto, la Palestina, la Siria, la Cappadocia e Costantinopoli (senza, però, ignorare Roma e la Gallia) alla ricerca di quelle che potremmo definire “Madri della Chiesa”, in parallelo con i ben più celebri e numerosi Padri della Chiesa.

Infatti, oltre all’abba, il “padre” spirituale del deserto (di loro esistono molte raccolte di detti e atti), c’era anche l’amma, la “madre”, che aveva un’analoga funzione di guida spirituale. È nata, così, in seguito agli studi storico-critici di questa monaca attuale, un’affascinante collezione di Detti e fatti delle donne del deserto che sbocciano da testi contrassegnati da generi letterari diversi. Si va dagli antichi racconti di viaggio alle biografie (la prima è quella di Macrina, la sorella di un importante Padre della Chiesa cappadoce, Gregorio di Nissa, che ne è l’autore) e si giunge a vere e proprie raccolte dei “detti” di queste figure spirituali, apoftegmi vivaci che talora sconfinano nel racconto edificante, non di rado affidato a protagoniste peccatrici convertite.

Curioso è anche il contesto concreto entro cui fiorisce l’esperienza di queste “Madri” che, pur essendo “monache” (dal greco mónos, quindi solitarie), sono tutt’altro che isolate. Anzi, se è vero che la maggior parte di loro punta alle aspre solitudini del deserto, talora travestendosi da uomo per essere accolte (e difese) in una cultura maschilista, è da sottolineare che alcune trovano invece le loro oasi mistiche in piena città, talvolta permanendo persino tra le mura della loro casa d’origine. Anche la tipologia della loro formazione è varia. Ce ne sono di quelle che riescono a interloquire a livello teologico nelle questioni dottrinali ed ecclesiali del loro tempo; altre sono diaconesse, non solo nel senso etimologico del termine, cioè “serve” dei poveri nella carità, ma anche con funzioni liturgiche.

A quest’ultimo proposito un testo redatto attorno al 250, la Didascalia degli apostoli, assegna loro il compito di ungere col sacro crisma le donne immerse nel fonte durante il rito del battesimo presieduto dal vescovo. Una diaconessa, una certa Lampadione, dirigeva invece il coro delle celebrazioni liturgiche. Altre erano bibliste, rivelando una straordinaria competenza nelle S. Scritture, come le due discepole di san Girolamo, Paola ed Eustochio, madre e figlia, che conoscevano ebraico e greco. Molte erano guide spirituali a cui accorrevano per la formazione anche uomini, come accadde a colui che sarà poi un illustre maestro di ascetica, Evagrio Pontico, formatosi alla scuola di Melania l’Anziana (per distinguerla da un’altra “direttrice” pirituale, la nipote Melania la Giovane).

Certo, accanto a queste figure femminili di spicco si allargava la folla delle donne anonime che, dimenticate nei loro nomi per i documenti storici, vissero però un’esistenza di serenità e di amore, lasciando un’eco nella vicenda del monachesimo. A questo punto, non resta al lettore che iniziare – seguendo la mappa disegnata da Lisa Cremaschi – una sorta di pellegrinaggio. Si apriranno panorami inattesi, non soltanto geografici quanto umani e spirituali. Come si diceva, le aree selezionate sono cinque: l’Egitto, la Siria, la Palestina, l’Asia Minore e l’Occidente. Di ogni amma che viene fatta salire alla ribalta si traccia un profilo biografico al quale segue la vera e propria sostanza del ritratto, cioè l’antologia testuale che la riguarda.

Le prime ad avanzare sono la sorella del padre del monachesimo egiziano, il celebre Antonio, che tutta la Chiesa cristiana venera ancor oggi (nel rito latino il 17 gennaio), e Maria, la sorella del fondatore della vita monastica comunitaria, l’altrettanto celebre Pacomio, entrambi del IV secolo. La sfilata poi prosegue con altre 26 donne delle diverse regioni indicate. C’è, ad esempio, Sincletica, un personaggio geniale e tormentato che conosce la tristezza e l’accidia (“acedia”) ma anche «la gioia indicibile». C’è persino la concretezza della quotidianità, ad esempio, col realismo delle latrine e la storia di una monaca che si finge ubriaca, così come la norma di evitare le serrature per lasciare la libertà di abbandonare la scelta ardua della vita comune monastica.

Ci si imbatte anche nella monaca vanitosa che ostenta digiuni di duecento settimane cibandosi solo ogni sei giorni, così come accade all’ascesi esasperante delle siriane Marana e Cira, che rasenta il masochismo, oppure ci si incontra con una donna gerosolimitana che per sei anni rimase reclusa vestita solo di sacco. Per questo eccesso essa è bollata negativamente da uno dei testi capitali per il nostro tema, la Storia lausiaca di Palladio, un racconto di viaggio steso tra il 419 e il 420 e così titolato perché dedicato a Lauso, ciambellano dell’imperatore di Costantinopoli. Straordinarie per la loro dolcezza sono, invece, le due Melanie già citate, aristocratiche e colte che divengono povere per seguire Cristo povero, con un amore appassionato e libero. Analoga sarà la vicenda delle già evocate discepole di san Girolamo, le nobildonne romane Paola ed Eustochio, che seguiranno il loro maestro fino a Betlemme per vivere la loro esistenza alle sorgenti della fede cristiana.

Potremmo continuare a lungo nell’elenco delle figure che scorrono davanti al lettore in una mirabile galleria di ritratti: da Olimpia, che trova il suo deserto nel cuore della città, a Blesilla, una donna ricca e gaudente che ha la vita attraversata da un dramma destinato a mutarne l’anima; da Marcella, appartenente a una delle più illustri famiglie romane, che diverrà una teologa, fino alla sua amica Lea che «sembrava povera e insignificante», pur essendo stata in passato molto dotata di beni economici, divenuta ricca interiormente. Per non parlare poi della vicenda sconcertante di Fabiola che abbandona il marito depravato per un altro uomo, ma che ritroviamo alla fine a curare i malati più gravi in un ospedale di Roma. Un famoso Padre della Chiesa, Giovanni Crisostomo, non esitava a riconoscere che «queste donne hanno lottato meglio degli uomini e hanno riportato più splendidi trofei» (così in un’omelia sul Vangelo di Matteo).