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Ti amo tantissimo, dunque ti compatisco

da Il Sole 24 Ore – 28 aprile 2019 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinale Gianfranco Ravasi indaga forme e significati di un potente sentimento: la compassione.

«In verità io non amo i compassionevoli… Tutti i creatori sono duri… Nella dorata guaina della compassione si cela talvolta il pugnale dell’invidia… Dio è morto: la sua compassione per gli uomini fu la sua morte… Sia lodato ciò che ci rende duri». Era ovvio: nel suo Così parlò Zarathustra Nietzsche al Dio crocifisso cristiano preferiva il Dioniso orgiastico trionfatore. E molti ai nostri giorni, politici e gente comune, che quasi certamente non sanno dire una parola sul filosofo tedesco, la pensano allo stesso modo e si comportano di conseguenza, spietati nei confronti dei diversi per pelle o etnia (anzi, «razza», come amano dire). Per questo, è necessario riportare questa virtù nell’areopago della società e della cultura e non solo nel cuore di certi templi, ove purtroppo si è insediato l’idolo del fondamentalismo sanguinario.

Non per nulla nel 2016 papa Francesco ha bandito un giubileo della misericordia che è un altro nome della compassione. A proposito di sinonimi di questa virtù, è interessante notare che persino nel suo lessico si possono occultare ambiguità. Certo, misericordia, carità, pietà, comprensione, tenerezza sono come i petali della stessa corolla. Ma si insinuano anche altri vocaboli che possono assumere tinte degeneri: pensiamo a compatimento, commiserazione (per il «miserabile»), pena e persino l’indulgenza che può indossare il manto della superiorità. È, dunque, importante scavare nel terreno molle della compassione per deporvi semi autenticamente fecondi.

E per fare questo dovrebbero stringere un patto teologia e antropologia, religione e umanità, etica e psicologia. È soprattutto a quest’ultima disciplina, da lui a lungo insegnata , che rimanda nel suo saggio Erminio Gius, affidandosi anche alle iridescenze dinamiche e neuroscientifiche di tale materia, adottandone i linguaggi, i metodi e le ramificazioni analitiche. L’autore è, però, anche un francescano cappuccino che vuole addurre nella densità delle sue pagine anche il portato tipico del credente cristiano che ha come codice capitale la Scrittura sacra. È così che l’imponente apparato critico della psicologia sociale, da lui a lungo insegnata dalla cattedra dell’università di Padova, viene strutturata sulla base di due straordinarie parabole di Cristo, esclusive del Vangelo di Luca.

Esse articolano a dittico il volume, introdotto da una vera autorità nel campo della psichiatria, Eugenio Borgna, che pone il suo sigillo anche su questa contaminazione di saperi nella consapevolezza che essi, pur nella diversità dei magisteri e delle loro epistemologie, convergono verso l’unico soggetto che è la persona umana nella sua fragilità e nella sua domanda di «com-passione» così da poter sostenere il peso del proprio limite. La prima tavola del dittico è affidata alla straordinaria (anche nella sua struttura narrativo-simbolica) parabola del figlio prodigo nella sua crisi e nella sua devianza che approda fino alla depressione (Luca 15,11-32).

Ma giustamente la definizione assegnata da Gius è quella di «parabola del padre misericordioso», perché il vero protagonista del racconto è il padre prodigo di compassione. Alla ricostruzione di questo rapporto padre-figlio, incrinato e sanato proprio dall’amore misericordioso paterno, vengono dedicate analisi molto accurate e fin sofisticate che delineano i diversi volti di una storia familiare nella quale domina l’arte suprema dell’«essere genitori» (è facile evocare, come viene fatto anche in queste pagine, il celebre dipinto dell’Ermitage in cui Rembrandt pone al centro in posizione frontale il padre che accoglie il figlio di spalle).

La seconda tavola del dittico è segnata da un’altra celebre parabola, quella del buon Samaritano (Luca 10,30-37) che, proprio attraverso la “diversità” etnica dei due attori, il compassionevole e la vittima appartenenti a culture e storie differenti, permette di allargare l’orizzonte anche alla giustizia e alla formulazione di una «carta etica universale» che abbia appunto in filigrana la compassione e la corresponsabilità umana reciproca. È per certi versi ciò che aveva proposto il noto teologo tedesco Johann Baptist Metz che in questa empatia umana radicale vedeva il programma ideale del cristianesimo immerso nell’epoca del pluralismo socio-religioso e della tecnologia. Naturalmente, molto più articolato e complesso di quanto si è finora detto, è il progetto delineato dal saggio di Gius che procede con una vera e propria batteria di testi e di temi biblici oltre che con continue analogie e ammiccamenti alla metodologia psicodinamica e neurocognitiva.

Forte è, comunque, la passione con cui viene affrontato il soggetto che ha nella stessa teologia cristiana un rilievo fondamentale. Già nell’Antico Testamento, uno degli attributi del Dio compassionevole era affidato a un sostantivo plurale, rahamîm, che designa le viscere generative, in particolare il grembo materno, trasformandosi in metafora emozionale. Tra l’altro, tutte le sure del Corano (tranne la nona, frutto forse di un frazionamento) si aprono con due aggettivi arabi coniati sulla stessa radicale del termine ebraico: «Nel nome di Dio misericorde (rahman) e misericordioso (rahim)». È questa la vera «compassione»: essere presi «fin nelle viscere» con un amore totale e spontaneo.

Questa stessa simbologia lessicale si reitera anche nel greco neotestamentario con un verbo che rimanda agli splanchna, cioè le «viscere», e che è attribuito proprio al padre della prima parabola quando vede profilarsi all’orizzonte il figlio smarrito (Luca 15,20) e al buon Samaritano che si commuove di fronte al ferito abbandonato dai banditi sul ciglio della strada (Luca 10,33). Anche Gesù ha le sue viscere attanagliate dalla stessa compassione quando, ad esempio, s’imbatte nel funerale del figlio unico di una madre vedova nel villaggio di Nain (Luca 7,13). Nell’Idiota Dostoevskij non esitava – quasi anticipando l’idea della carta etica mondiale proposta da Gius e Metz come «terapia» sociale – ad affermare che «la compassione è la più importante e forse l’unica legge di vita dell’umanità intera».