
14 Feb Ricerca: tra vocazione e valore collettivo
«Senti, perché hai detto che sto sbagliando tutto?»
«Ah beh niente, così. Per esempio, quando m’hai fatto salire a casa tua, che stavi studiando?»
«Nullità e annullabilità degli atti processuali»
«Ecco vedi, a che serve? Sarà roba di cent’anni fa»
«Anche di mille»
«Eh, meglio ancora. Io capirei studiare, che so, diritto spaziale»
«Diritto spaziale?»
«Certo. Due astronavi si scontrano. Chi è che paga? Oppure: i terreni sulla luna si possono lottizzare? Hai capito?»
Ci troviamo allo snodo centrale del capolavoro cinematografico di Dino Risi, “Il Sorpasso”, del 1962. Roberto (Jean-Louis Trintignant) ha da poco conosciuto Bruno (Vittorio Gassman) e, catturato dalla sua eccentricità e dal suo savoir faire, accetta di mettere in dubbio le proprie certezze e di seguirlo in un viaggio in macchina sempre più lungo, metafora di una spirale catartica dai risvolti tragici. Attraverso l’incontro tra i due uomini, Risi dipingeva – con grande lungimiranza – il contatto tra due mondi che sembrano incarnare l’apollineo e il dionisiaco: uno, in declino, rappresentato dai formalismi e dall’impostazione tradizionale del giovane studente Roberto; l’altro, in ascesa, ipertecnicista e testimoniato dall’attitudine di Bruno a “consumare” la vita, nel bene e nel male. Il ritmo incalzante ed energico dell’edonismo del personaggio di Bruno finisce per trattare come oggetti di consumo persino i saperi classici e gli interrogativi personali di senso che animano (e rallentano) Roberto. Metterli da parte ci permette forse di muoverci con più scioltezza nella società, sembra suggerire Risi, ma limita le nostre abilità speculative e acuisce le difficoltà di ricerca della verità, singolare e collettiva.
Sono passati più di sessant’anni, ma la domanda di fondo del film è ancora attualissima: cosa cerchiamo? E verso dove stiamo andando? Tra chi non si muove e si rifugia senza troppi interrogativi nella tradizione e chi invece viaggia senza una meta precisa, la nostra società ha completamente obliato il senso della ricerca, almeno per un paio di motivi. Anzitutto, quella del ricercare è una pratica scomoda e spietata, che ci costringe a metterci costantemente in dubbio e in discussione; secondariamente, la gamma infinita di scelte e possibilità che il mondo ci offre oggi, tratto caratteristico di quella che Zygmunt Bauman ha chiamato “società liquida”, sembra renderla, se non impossibile, quantomeno molto più faticosa rispetto al passato; infine, necessita di tempo di qualità e di un certo grado di isolamento, sempre più complicato da raggiungere. Eccoci allora nell’era della post-verità, dove le categorie di vero e falso perdono di senso e significato, in favore di quelle di virale e riservato, di pubblico e privato. Per rendere vera un’affermazione, in sintesi, basta che molte persone ci credano contemporaneamente.
Al netto della dimensione individuale, la post-verità è un fenomeno collettivo e ha già modificato il nostro modo di approcciarci, per esempio, alla ricerca scientifica, reputata, almeno nella sua funzione pubblica, come un lusso, un di più di cui possiamo fare a meno, mentre crescono incontrollate le narrazioni distorte – pensiamo a quelle che interessano la storia o la medicina tradizionale – che mirano ad approfittare della voragine culturale che si sta aprendo. Soprattutto noi giovani stiamo allora perdendo gli “anticorpi” per reagire a questa crisi ma, come il Roberto di Risi, dovremmo affidarci all’unica domanda che permette di fare un passo in avanti, ognuno nella direzione che desidera: “E se fosse vero che sto sbagliando tutto?”.
Andrea Raffaele Aquino