Ravasi: scienza e cultura digitale ecco dove la Chiesa è in ritardo

da “La Stampa” – 11 novembre 2018 – di Bruno Quaranta.

C’era anche Gianfranco Ravasi fra le talari in girotondo fotografate da Mario Giacomelli, un’immagine indelebile per Il Mondo di Mario Pannunzio, il settimanale della «terza forza», un tarlo critico incuneato nelle due Chiese, la cattolica e la comunista, non dimenticando le ridotte laiciste?

Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, il cardinal Ravasi ha ricevuto ieri a Torino il premio Pannunzio, affiancandosi a figure quali Montanelli e Mila, Abbagnano e Rigoni Stern, Ronchey e Spadolini.

 

Pannunzio e «Il Mondo»: che cosa rappresentano nella sua biografia intellettuale?
«Sottolineano la duplice vocazione che mi scorta. Da un lato, confrontarmi con chi, rispetto alla sequela umana, si colloca da angolature diverse. Dall’altro, il mio essere eclettico, acceso da una vasta curiositas. Per esempio, leggendo Il Mondo scoprii Flaiano. Che risalterà fra i miei autori. Un testo, in particolare. Cristo, ritornato sulla terra, incontra un uomo che, mostratogli il proprio figlio sgangherato, lo folgora: «Non voglio che tu lo guarisca, ma che tu lo ami». Cristo non esita a specchiarsi in lui: «Mi hai chiesto ciò che posso dare».

 

Il laico Pannunzio volle come viatico per l’estremo viaggio una copia dei «PromessiSposi». Come valuta tale scelta?
«Vi sono figure, come Pannunzio, come Flaiano, con una forte carica di spiritualità,assistiti dalla consapevolezza che la conoscenza umana è poliforma, acquisibile non solo attraverso la ragione. Dall’arte all’amore, le vie che vi conducono sono molteplici».

 

Il laico «Mondo», una palestra di dialogo. Tra i suoi collaboratori il liberal-cattolico Jemolo e il «popolare» Sturzo, prima che credenti pensanti, come avrebbe detto Bobbio (e Martini).
«Il Mondo ci riconduce a tempi diversi dal nostro. Oggi, a dominare, sono lo scontro, la superficialità, l’indifferenza. In ogni campo. Non la riflessione, non lo studio, non la cognizione che la realtà è complessa e complicata. Dalla politica alla religione, alla sfera digitale».

 

La Chiesa di Francesco «ospedale da campo» non confligge con la riflessione, teologica e non?
«Ogni pontificato ha un’identità. Si è passati dall’impostazione fortemente dottrinale di Ratzinger al passo nitidamente pastorale di Francesco. Componenti egualmente essenziali, che misteriosamente si dispiegano nella storia della Chiesa. Perché – Ecclesiaste docet – c’è un tempo per tutto».

 

Dottrina e pastorale. Mezzo secolo fa la discussa enciclica «Humanae vitae» di Paolo VI, la dottrina in primis. Nell’«Amoris laetitia» di Francesco, la pastorale innanzitutto.
«Vi è un equilibrio da cercare. Tra la verità oggettiva, un dato di fede, e l’incarnazione della verità. La verità è assoluta, ma non del tutto. La verità è relativa: a me, non in sé. Il supremo tribunale è la coscienza, come afferma il Concilio, come si rammenta nella medesima Humanae vitae».

Un ricordo di Montini, da poco santo?
«Si informò sulla mia sensibilità culturale. Per lui e per me così cruciale la Francia».

 

Tra i francesi che predilige, Julien Green. Sostiene un suo personaggio: «Diventando cristiano, cesso di essere cattolico». Come interpreta?
Green, che nasce protestante, era agostiniano. Voleva che il cattolico non perdesse l’anima cristiana. Perché il cattolico può risultare – un rischio concreto – ateo».

 

Come un ateo può risultare naturaliter cristiano…
«Si riapra l’Apologia di Giustino, filosofo del Lògos, Padre della Chiesa. Il Lògos che si effonde nel mondo, abitando e consentendo di riconoscere come cristiani personalità quali Socrate ed Eraclito».

 

Il Pontificio Consiglio da Lei retto fu voluto da Montini…
«Il cambio di nome lo stabilì Giovanni Paolo II. Paolo VI richiamò invece esplicitamente “il dialogo con i non credenti”».

 

Tra i non credenti, non di rado, gli artisti (in senso lato: poeti e uomini di lettere, pittori, scultori…). Asseriva Thomas Mann: «Tu credi nell’ingegno che non abbia nulla a che fare con l’inferno? Non datur».
«La teologia nasce come teodicea: per giustificare l’esistenza di Dio e del Male, problema tanto incancellabile quanto eluso. Ma non dai “portieri delle tenebre”, come Guitton, in dialogo con Montini, battezzò Dostoevskij, Bernanos, Gide».

 

Martini denunciò l’arretratezza della Chiesa, quantificandola in duecento anni. In che cosa è più in ritardo?
«In due settori. Le scienze, che tendono ad andare per conto loro, eludendo o sottovalutando le domande etiche. E la cultura digitale: un giovane che trascorre sei ore al giorno dinanzi al computer è una questione antropologica, cova un diverso uomo».

 

Lei è anche un ebraista. Barth affermava che l’unico problema ecumenico è il rapporto con gli ebrei.
«No. La teologia della sostituzione è decaduta. La nuova Alleanza non ha sostituito l’antica. All’ambone insieme stanno Vecchio e Nuovo Testamento. Lo stesso Paolo, nella Lettera ai Romani, avverte che dai fratelli Israeliti “proviene Cristo secondo la carne”».

 

Quali le impronte di Torino nella sua formazione?
«Milano, specialmente, contiene le mie radici. Beninteso non posso non rievocare il magistero di padre Pellegrino, che al Concilio difese una cristiana libertà di ricerca e di pensiero, sia per i laici sia per i chierici».