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Un’architettura che nasce da una responsabilità. La XVI Biennale di Venezia

da “La Civiltà Cattolica” – 20 ottobre/3 novembre 2018 – di Friedhelm Mannekes S.I.

Il Padiglione del Vaticano

[…] Con un progetto impegnativo, sponsorizzato da molte imprese costruttrici, per la prima volta il Vaticano entra nella cerchia degli Stati che partecipano alla Biennale. Dopo i tentativi non molto in­coraggianti delle ultime Biennali d’arte, ora esso si presenta a quella di architettura con un progetto convincente. I due curatori – lo storico dell’architettura Francesco Dal Co (Università di Venezia) e lo storico dell’arte Micol Forti (Musei Vaticani) – hanno invitato 10 studi di architettura ad allestire un’esposizione nel vasto parco re­trostante il monastero benedettino di San Giorgio Maggiore, pro­gettato da Andrea Palladio (1508-80). Gli architetti provengono da quattro continenti, purtroppo nessuno dall’Africa.

Gli elementi obbligatori loro proposti erano una croce, un alta­re, dei posti a sedere. Nient’altro. Modello di ispirazione dell’inte­ro progetto è stata la famosa Cappella nel bosco,costruita nel 1920 nel cimitero di Stoccolma dall’architetto svedese Gunnar Asplund (1885-1940). Così si è formato un percorso, in libera sequenza, di undici piccole cappelle, che si trovano sotto e tra gli alberi. Se il visitatore non fa tanto caso all’aspetto qualitativo e non si lascia di­strarre dal verde e dalla luce del parco o dall’acqua riflessa nella laguna, ha la possibilità di seguire un itinerario emozionante, fonte di ispirazione e di contemplazione.

Tre cappelle sono degne di essere menzionate: quelle di Eduar­do Souto de Moura (Porto), di Carla Jua^aba (Rio de Janeiro) e di Norman Foster (Londra).

Il vincitore del Premio Pritzker (2011), Eduardo Souto de Mou­ra (nato nel 1952), viene da Porto, in Portogallo. La sua architettura mantiene fortemente gli equilibri tra il sostanziale e il minimalista, tra il plastico e l’astratto. Egli appare insieme agile e deciso, ma resta fedele a se stesso, pur tra tendenze e stili mutevoli. Ha insegnato in molte università di tutto il mondo.

Lo spazio di preghiera proposto da Souto de Moura, costituito da circa 50 grossi blocchi di calcare veronese, si rivela grave, intro­verso ed esteriormente poco espressivo. Il tetto è costituito da due blocchi massicci, ma che coprono solo l’area dell’altare. Tutti i bloc­chi sono stati tagliati appositamente per questo progetto, trasportati sul luogo e montati. Anche l’altare è costituito da un pesante blocco della stessa pietra. La cappella appare uno spazio chiuso dall’effetto arcaico, come se fosse scolpita nella roccia. Diverse tecniche di la­vorazione delle superfici della roccia color miele vivacizzano la co­struzione, che appare monumentale pur nella sua semplicità. All’in­terno, con i suoi materiali massicci e la sua progettazione chiara, questo luogo sacro sembra quasi fuori del tempo e dello spazio. La superficie ristretta riservata all’altare è senz’altro l’obiettivo cercato per questa cappella: come se l’altare stesse scendendo sulla terra at­tratto dalla gravità, un luogo sacro che scivola nello spazio terrestre.

Carla Juaqaba, nata nel 1976 a Rio de Janeiro, è una giovane progettista brasiliana, molto sensibile nel suo lavoro e di fama in­ternazionale. È nota la capacità immaginativa con cui crea i suoi edifici e i suoi spazi. Sa collocare in modo vivace la sua architettu­ra nell’ambiente, dove crea dialoghi insoliti. Le sue proposte sono innovative, spesso caratterizzate da una leggera ironia. I progetti più concreti si mostrano flessibili. Questo vale anche per i severi materiali, frutto di un’attenta riflessione, che mantengono vivo un effetto di scambio tra i singoli dettagli e l’osservatore che li scopre.

Con la sua cappella nel bosco l’artista ha avuto l’audacia di creare un complesso scultoreo minimalista, che suscita meraviglia. Strut­turalmente, l’opera consiste di due croci di acciaio completamente lucide, delle dimensioni di 12 x 12 centimetri e della lunghezza di otto metri.

La prima è una panca poggiata a terra, su sette lastre di cemento. Ognuna di queste lastre è lunga due metri, ed esse sono poste in fila alla distanza esatta di un metro l’una dall’altra, come traversine di bi­nari. Nella visione di Carla Jua9aba, qui potrebbe sedersi una comuni­tà come su delle panche nude e, per così dire, radunarsi «nella croce», ai piedi, alle mani, alle ginocchia, al capo, al cuore della croce…

In fondo alla croce levigata, la seconda croce è eretta verticalmente e, per mezzo di una saldatura, si innalza per otto metri di altezza. Il suo braccio trasversale è dalla parte del terreno e si allarga come nella croce capovolta. Ma, dal punto di vista teologico, potrebbe essere in­tesa anche come un segno del processo della «discesa dall’alto».

Questa cappella nel bosco è dunque concepita come uno spazio di riunione e di meditazione. Con una croce, il complesso scultoreo poggia letteralmente su un’isola nel verde, sotto il cielo aperto e gli alberi, e si estende «verso la terra», oltre i confini dell’isola, verso l’acqua, nella città e nel mondo. Allo stesso tempo, l’altra croce si innalza «verso il cielo».

La costruzione, estremamente ridotta, è davvero innovativa come struttura scultorea. Si muove sul luogo e si impone mediante i riflessi, otticamente «a squarciagola», sull’ambiente circostante e sul visitatore. La costruzione li riceve entrambi in sé stessa grazie ai riflessi delle lucide croci cromate. È un complesso che coinvolge la persona direttamente, interrogandola e sfidandola. Questa opera dunque è interessante non soltanto dal punto di vista architettonico, ma anche da quello liturgico.

Norman Foster (nato nel 1935 a Manchester), vincitore del Pre­mio Pritzker 1999, con la sua delicata costruzione in legno e ac­ciaio apre una particolare visuale sulla laguna. L’ispirazione per la sua concezione formale della cappella sono state tre grandi croci inserite nel paesaggio, come in un quadro di Rubens; ma forse è stata anche solo l’idea dei tre grandi alberi di una nave a vela. Gli sarà subito venuta in mente l’immagine di una membrana che come una tenda avvolge tutto, riunendolo a formare una cappella nel bo­sco? Oppure l’idea di una nave per rappresentare la Chiesa? Foster ricorda: «Il progetto ha avuto inizio con la scelta di un luogo adatto. Durante una visita a San Giorgio Maggiore, vicino alla splendida chiesa del Palladio e al Teatro Verde nel parco retrostante, ho in­contrato una zona verde con due alberi secolari, che incorniciavano una splendida veduta sulla laguna. Era come un’oasi nel giardino verde, ideale per riflettere. Il nostro obiettivo era quello di creare un piccolo spazio che si allungasse nell’ombra e si… rivolgesse all’acqua e al cielo: un rifugio, dunque».

Ecco allora il progetto finale: una struttura dal pavimento di acciaio e tre alberi maestri di acciaio con traverse che sono tirate da cavi anch’essi di acciaio e piccoli profilati concavi, circolari. Que­sti consentono di separare tra loro i bracci trasversali orizzontali e gli alberi maestri verticali, pur assicurandone la stabilità strutturale. Presi insieme, essi costituiscono una struttura del tetto a forma di tenda, capace di resistere ai carichi di vento sia verticali sia laterali.

Lo spazio è invece delimitato da un tendone e da una serie di sottili listelli di legno di larice, che scendono dal soffitto fino a ter­ra, come delle sartie, e che, per così dire, «ormeggiano» l’insieme. Così essi permettono alla luce punteggiata di penetrare nello spazio, e contemporaneamente alla luce e alle ombre di oscillare insieme, definendo il volume della cappella. In tal modo si è creato un me­raviglioso spazio atmosferico, che risplende anche durante il giorno nel suo ambiente con una luminosità di diversa intensità. La sua grazia attrae subito lo sguardo di ogni visitatore. All’interno,

se­guendo la linea delle tre croci, lo spinge verso l’altare. Qui si apre la parete grigliata lignea, suggerendo allo sguardo di spaziare libero nell’ampiezza delle acque della laguna. Un luogo sacro.