Ravasi: “I miei tormenti fanno parte della fede, so di camminare tra le sabbie mobili”

La levigata cortesia del Cardinal Ravasi si intona perfettamente con l’atmosfera ovattata che proviene dalle stanze del Pontificio consiglio della cultura. In un pomeriggio in cui i turisti, ormai esausti, sembrano ritrovare una quiete nel corteo seriale di pullman parcheggiati lungo via della Conciliazione, vado a trovare sua Eminenza. Rientrato dal Nord Europa, è in partenza per gli Stati Uniti. Gli chiedo se l’impegno internazionale non lo stanchi. “Fra tre anni, allo scoccare del settantacinquesimo, potrò pienamente dedicarmi ai miei studi”, dice con divertita rassegnazione. Butto lì delle parole. Senza un ordine preciso. Convenevoli. In attesa che si trovi una stanza dove colloquiare. A un certo punto gli ricordo di un’amicizia comune: Beniamino Placido. E risveglio nel mio interlocutore un pathos antico: “Quell’amicizia fu un dono. Beniamino aveva, delle virtù del laico, la disponibilità e l’ironia, la curiosità e l’umiltà. Gli proposi di scrivere insieme una grammatica di ebraico biblico. Mi guardò senza ansia. Potrei accettare solo a un patto. Quale? Chiesi. Che lei ci metta tutta la sua conoscenza e io tutta la mia ignoranza”.

Cos’è la perdita di un amico?
“C’è il dolore e magari il rimpianto per non aver detto o fatto tutto quello che avremmo immaginato. Ma un’amicizia, anche quando non c’è più perché l’amico se ne è andato, resta con la sua forza di testimonianza”.

Si conosce anche attraverso l’ignoranza?
“La condizione del non sapere è indispensabile alla conoscenza”.

Ma il mondo non continuerà a dividersi tra coloro che sanno e coloro che non sanno?
“È una distanza che va interpretata, compresa e infine, per quel che si può, colmata”.

Come?
“Oggi la Chiesa sta rivestendo di un significato nuovo la parola semplicità”.

Pensa al pontificato di Francesco?
“Con ogni evidenza ha spostato la comunicazione dal piano teorico a quello esistenziale. La semplicità ne è l’effetto. Ma anche la causa. Di solito i nostri discorsi sono carichi di subordinate, i suoi di coordinate”.

È diretto.
“Dotato di una comunicazione visiva e di una somaticità viva. Il suo corpo è parte integrante della comunicazione: ha abolito la distanza dai fedeli”.

La comunicazione oggi è rapida ed essenziale. Ci si riconosce?
“Gesù avrebbe potuto tranquillamente usare Twitter: “Restituite a Cesare quel che è di Cesare…” non sono più di 50 caratteri ed è tutto pienamente comprensibile. Ed efficace”.

Se lo immagina Gesù oggi tra le gente?
“Se Gesù tornasse tra le strade del mondo forse gli chiederebbero i documenti”.

Il panorama è radicalmente diverso rispetto a duemila anni fa.
“Non c’è dubbio. Ci sono state molte rivoluzioni nei modi di vivere e di pensare”.

Quella più recente?
“Visto che parliamo di comunicazione pensavo a quanto andava dicendo McLuhan qualche anno fa”.

Cosa diceva?
“Che i nuovi mezzi di comunicazione sono il prolungamento dei nostri sensi”.

Un’idea brillante.
“Da ripensare. Anche alla luce del fatto che sta cambiando la nostra percezione e il rapporto con il nuovo ambiente”.

Sempre più spesso si parla di mutazione antropologica.
“Ci siamo dentro in pieno. Occorrerà capire qual è la direzione”.

Ma Dio permetterà che l’uomo gli sfugga di mano?
“Dio non è un controllore”.

Non la spaventa?
“Cosa?”.

Non la spaventa vedere l’immensa, veloce, sconcertante trasformazione del mondo attraverso la tecnica e la scienza?
“No. Ciò che sta accadendo deve indurci a riflettere sul fatto che la scienza non può sottrarsi al confronto con la religione”.

Non è una vecchia storia che ci siamo buttati alle spalle?
“Sono linguaggi diversi. E differenti sono stati i modi per affrontarli. Il grande fisico tedesco Max Plank non vedeva contrasto. Semmai una possibilità di completarsi nella mente di chi pensa seriamente religione e scienza”.

È la conclusione di un lungo conflitto?
“Gli animi più avvertiti da tempo hanno messo la parola fine a questa guerra. Perfino Nietzsche scrisse che sebbene non ci fosse amicizia non c’era neppure inimicizia, dal momento che religione e scienza vivono in sfere diverse”.

Ciascuna nel suo mondo.
“Non escludo, però, che si parlino. Fede e scienza sono distinte ma non separate. Il dialogo è possibile”.

La posta in palio è la verità?
“Non necessariamente come una contesa”.

Qual è la sua idea di verità?
“Nella mia esistenza la verità mi precede, mi eccede e mi trascende. Sono distante da una concezione situazionista o dal relativismo oggi imperante. Per me è vera l’immagine che Platone usa nel Fedro, quando descrive la biga alata che corre nella “pianura della verità”. Quest’ultima è estesa, infinita e la si deve conquistare”.

Come si conquista un obiettivo?
“Non in quel senso. Credo l’abbia espresso benissimo un pensatore come Adorno quando in Minima moralia scrive: “La verità non la si ha, nella verità si è””.

Lei fa letture abbastanza sorprendenti.
“Servono a bilanciare la mia inquietudine”.

È inquieto?
“Quando conobbi Julien Green, che da protestante si era convertito al cattolicesimo, gli dissi che di lui avevo letto quasi tutto e che mi sarebbe piaciuto scoprire il nodo della sua religiosità. Mi rispose citando una frase del suo Diario: solo finché si è inquieti si può stare tranquilli. Il mio interrogarmi non può prescindere dall’inquietudine”.

Si entra nella sfera della fede e dei suoi tormenti?
“La fede è un atto complesso. Si intreccia con la ragione, la fiducia, la scienza, le opere. Ma senza esaurirsi in essi. I tormenti le appartengono”.

Come definirebbe la sua fede?
“Una forma di amore. L’amare non esclude il comprendere, ma viene prima”.

C’è un momento della sua vita in cui questa sensazione ha preso forma?
“Dovrei pensare a me bambino”.

Ci provi.
“Tutto cominciò con un tramonto e il fischio di un treno. Avevo quattro o cinque anni. Era da poco finita la guerra. Da una collina della Brianza si dominava la lunga vallata. In quel crepuscolo, dominato dal silenzio, mi giunse il fischio della locomotiva. Sentii in me una tristezza misera e grandiosa. Per la prima volta ebbi la percezione del limite delle cose, del loro morire, e contemporaneamente avvertii il desiderio di cercare qualcosa di sicuro che le ancorasse e desse loro un senso”.

Un bambino davanti al mistero?
“Quell’immagine così lontana e irrevocabile è tornata spesso con trepidazione nei miei pensieri”.

Cosa ha di speciale?
“Senza saperlo e in forma ancora incompiuta sentivo l’urgenza di un’interrogazione sull’esistenza finita. Il concetto di Dio nasce qui: se c’è il finito che ci interpella in maniera così profonda e drammatica deve esserci qualcosa di più e di oltre”.

Una fede, se posso insistere, molto esistenziale e tormentata.
“Ma non un tormento fine a se stesso. Del mio cristianesimo amo molto Agostino, Pascal, Kierkegaard. Ma ammiro, al tempo stesso, i grandi sistemi”.

Questi ultimi ormai un po’ traballanti.
“Non ho mai festeggiato il funerale delle ideologie. Cosa ha prodotto la loro fine se non un cumulo di banalità?”.

Lei dice: ammiro i sistemi. Ma non li ama.
“Non potrei. Lo loro pienezza è solo contemplabile. Mentre io so di continuare a camminare tra le sabbie mobili”.

L’inscalfibile e drammatica concretezza umana?
“È ciò che Kierkegaard ha cercato di spiegarci grazie al tema dell’angoscia. Che non ha niente del pessimismo disperato e molto dell’autentica pienezza che cerchiamo”.

E questa pienezza il pensiero è in grado di trovarla o, meglio, di viverla?
“Gli autori che le ho citato ne sono una dimostrazione. Senza rinunciare all’uso della ragione, si lasciano interrogare e coinvolgere dalla forza del mistero”.

Mi faccia un esempio.
“Le do un esempio musicale, di un compositore che amo: Bach. Le sue cantate sono il massimo della geometria unito al massimo della creatività”.

Mi parlava di lei bambino davanti a un tramonto e al fischio del treno. Quando quel germe divenne vocazione?
“In quarta ginnasio entrai in seminario. Il mio papà, funzionario delle imposte, non aveva una grande pratica religiosa. Ma accettò di buon grado la mia scelta. Vivevo una simbiosi profonda con mia madre: una maestra, persona semplice dotata di una genialità intuitiva. Le debbo moltissimo”.

Una decisione come quella di entrare in seminario l’ha discussa, confrontata con qualche amico?
“Non ci fu nessun consiglio. Ebbi l’impressione che il mio cammino avvenisse nella forma dell’autoelaborazione. Il che può presentare dei limiti. Ma è stato così”.

Come furono gli anni del seminario?
“Certamente intensi e solitari. Ma ho goduto di un grande aiuto. Vedendomi così disponibile allo studio mi fu lasciata ampia libertà. Uno dei motti che ritrovai nell’Apologia di Socrate, che avevo allora tradotto dal greco, era: una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta . È un po’ la sigla che riassume perfettamente il mio rapporto con il mondo, con le persone, con i libri”.

Alla luce di questa affermazione come si definirebbe?
“Dal punto di vista dello studioso sono un eclettico. E lo considero una dote, non un limite. La mia posizione è quella di chi cerca ai bordi della strada più che al centro. Non sono, non sarò mai un grande pensatore”.

È un’ammissione di umiltà?
“No, anche perché non rinuncerei al mio eclettismo. Quello che faccio mi diverte tantissimo. A volte mi dico: non lascerai tracce nella storia? Avrai fatto scialo del tuo tempo? Pazienza. Questa è stata la mia vita”.

A dire il vero una vita pienissima: gli incontri con i non credenti, le letture, le lezioni, in giro per il mondo. Cosa tiene insieme tutto questo?
“La curiosità. È una malattia dell’anima, ma ti dota anche di una grande energia conoscitiva”.

La curiosità le consente di capire ciò che sta accadendo?
“La mia doppia esigenza è sempre stata quella di non staccarmi dal passato, senza rinunciare a quanto di nuovo sta accadendo. Purtroppo uno dei grandi mali della nostra contemporaneità è la smemoratezza”.

Con quali conseguenze?
“Cancellare il ricordo significa privarsi della sostanza spirituale del passato. Giorgio Pasquali, il grande filologo, diceva che chi non ricorda non vive. Intendeva dire che senza il grande patrimonio del passato le esistenze deperiscono. Non a caso la nostra società, culturalmente sempre più povera, pensa sempre meno”.

Si vive in un eccesso di presente?
“Scambiamo il presente con l’eterno”.

Come ripensarlo?
“Non è facile. Ma so che in ogni cosa, in ogni gesto c’è un’anticipazione del nostro futuro. Che non necessariamente è roseo”.

È la nostra condizione umana.
“Torniamo sempre lì. Mi viene alla mente un episodio. Quando è morta Amy Winehouse ho provato ad ascoltare i suoi dischi. E per me, abituato a Bach e ad Alban Berg, è stata una fatica incredibile. Ma alla fine, nei testi delle sue canzoni, nella sua musica, ho ascoltato la profondità di certi drammi, mille volte più incisivi che a leggerli nei trattati di sociologia. È questo che intendo quando affermo che amo cercare ai bordi più che al centro delle vite”.

Anche lì vive la bellezza?
“Soprattutto lì, dove un mondo trascurato è degno della nostra attenzione e della nostra gentilezza”.

Ma c’è ancora un’idea di bello?
“Se c’è non è l’emozione che può dare la Scuola di Atene di Raffaello o la Canestra di frutta del Caravaggio. Glieli cito perché erano vedibili nella pinacoteca Ambrosiana di Milano dove lavoravo”.

La Chiesa ha smarrito quel tipo di bellezza.
“Non c’è dubbio. Il mio amico Padre Turoldo diceva che gli edifici moderni delle chiese sembravano dei garage con Dio parcheggiato insieme ai fedeli. Però vede, il cristianesimo ha prodotto una grande bellezza e al tempo stesso il suo opposto”.

Cioè?
“È la religione della tragedia e quindi anche del brutto. La croce non ha nulla di esteticamente bello. Il corpo martoriato è terribile. Ma proprio per questo la bruttezza va accolta come un richiamo al mondano, senza stucchevoli oleografie”.

Per un cattolico l’arte non è la forma più vicina alla redenzione?
“È la più prossima alla fede. La nostra società è segnata dalla volgarità e dall’indifferenza, dal sopruso e dal vuoto. L’arte è l’occasione per aprirci al trascendente. Un ateo come Henry Miller disse una volta: l’arte e la fede non servono a nulla tranne che a mostrare il senso della vita. E, aggiungo io, per questo sono sorelle”.

(La Repubblica-Antonio Gnoli)