Petrarca salmeggia, Alberti impreca un po’

da Il Sole 24 Ore – 1 dicembre 2019 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinale Gianfranco Ravasi ci parla del genere letterario dei Salmi, comunemente ricondotti a preghiere, invocazioni o suppliche.

Anche chi non ha una pratica religiosa conosce il valore almeno generico sotteso alla parola “Salmi”, considerata come un sinonimo di preghiera, invocazione, supplica e così via. In realtà il termine greco psalmós, che ne è la matrice lessicale, rimanda piuttosto alla qualità musicale del termine, dato che psaltérion è uno strumento a corda, simile alla cetra o all’arpa. La tradizione giudaica ha preferito intitolare il libro biblico contenente 150 “Salmi” col vocabolo tehillîm, “lodi”. Questa raccolta di testi poetico-mistici fatti di 19531 parole ebraiche (è per lunghezza il terzo dei libri biblici, dopo quelli del profeta Geremia e della Genesi) ha costituito il filo orante ininterrotto della Sinagoga e della Chiesa.

Ma, a causa della sua popolarità, i Salmi sono divenuti anche una sorta di genere letterario comune, imitato da vari poeti nei secoli, oltre che essere la base di infinite partiture musicali (come non pensare alla Sinfonia dei Salmi di Stravinskij o alla sterminata serie di Vespri che si basano appunto su alcune composizioni salmiche costanti?). Proporremo ora due applicazioni nobili di questo genere condotte da figure capitali nella storia della letteratura occidentale. Una nota previa è necessaria: il tessuto poetico di questi autori è, sì, originale ma ha come palinsesto lacerti di citazioni o ammiccamenti testuali o evocazioni simboliche o rimandi appartenenti al libro biblico di base.

A offrirci questo dittico di ri-creazioni salmiche in un’edizione critica raffinata è Donatella Coppini dell’università di Firenze. Partiamo con un personaggio fondamentale della nostra cultura, Francesco Petrarca, e coi suoi sette Psalmi penitentiales a cui si aggiungono alcune Orationes, composizioni oranti di natura e stile più personali. Non tutti sanno che le opere latine del poeta aretino sono quantitativamente superiori rispetto a quelle in volgare: egli era convinto di passare ai posteri proprio attraverso le sue prose e poesie latine, considerate da lui anche come lo specchio più limpido della sua interiorità e dell’universalità del suo messaggio.

La studiosa, per quanto riguarda le Orationes, ci offre quelle autografe contenute nel codice Parigino Latino 2201 della Biblioteca Nazionale della capitale francese, accostando al testo latino, criticamente vagliato, la traduzione italiana. A una lunga preghiera iniziale datata 1 giugno 1335 e rivolta «a te, Signore Gesù Cristo, creatore meraviglioso e amico munifico del genere umano», accompagnata da una versione più breve, subentra un curioso fascicoletto di sei “preghiere contro le tempeste”. Esse coinvolgono anche i santi Lorenzo, Agata, Nicola ed Erasmo, oltre a Cristo e Maria. Alla fine si allega una “preghiera notturna” con applicazioni per alcuni tempi dell’anno liturgico, dal Natale alla Pasqua.

Ma, per stare al genere specifico, più rilevanti e famosi sono i sette Psalmi penitentiales, scritti in prosa ritmica con una filigrana biblica e con un afflato agostiniano (sappiamo che la popolarità delle Confessioni del celebre Padre della Chiesa è stata inaugurata proprio da Petrarca). La tradizione cristiana dal VI secolo in avanti ha individuato all’interno dello scorrere del Salterio biblico sette suppliche (secondo la numerazione ebraica sono i Salmi 6, 32, 38, 51, 102, 130, 143) contrassegnandole come “penitenziali” perché in esse domina nell’orante la coscienza del peccato. Due di esse sono diventate proverbiali nel loro stesso incipit secondo la versione latina di san Girolamo, il Miserere (51) e il De profundis (130). Anche Petrarca fa sbocciare la sua implorazione proprio dal grembo oscuro della colpa: «Ahi, misero me, perché ho reso il mio redentore irato verso di me e ho sprezzato ostinatamente la sua legge!». Così nel suo primo Salmo.

Il filo nero continua per tutte le altre composizioni, spesso con veemenza: «Fin troppo mi sono rivoltato e sono marcito, misero, nel fango dei miei peccati… Le mie notti passano nella tristezza e mi agitano in terrori infiniti. La mia coscienza mi tormenta, insonne, e per me non c’è che male…». E così via, in un flusso ininterrotto le cui emozioni sono spesso intarsiate col lessico biblico. Siamo, così, condotti senza soluzione di continuità al secondo autore considerato dalla Coppini, Leon Battista Alberti, il famoso architetto e letterato quattrocentesco, genovese di nascita ma fiorentino di origine e di adozione. A lui dobbiamo, sulla scia del Petrarca, la libera ripresa di un altro genere letterario, quello dei cosiddetti “Salmi imprecatori” biblici, attacchi incandescenti al male e ai malfattori, consegnati alla mano della vendetta divina (si legga l’impressionante Salmo 58). Sono pagine così violente da essere state escluse nell’uso post-conciliare nella liturgia cattolica.

Alberti compone cinque Psalmi precationum che certamente invitano all’esecrazione dei peccatori ma si distaccano dall’ardore dei paralleli biblici perché egli «non coinvolge la divinità nella virulenza delle maledizioni dirette contro gli empi, maldicenti, menzogneri, invidiosi», ma «declina le caratteristiche dell’essenza divina potente e benefica o terribile ma giusta e quindi degna di essere lodata, temuta, guardata con speranza e fiducia». Lo sguardo è, perciò, rivolto verso il Dio giusto nei cui confronti deve scattare la confessione della colpa, la riverenza verso la sua potenza. Anche in questo caso è subito visibile il linguaggio biblico col suo carico di simbologie, non di rado affidato a vere e proprie citazioni.

Il commento minuzioso della studiosa fa emergere tutta la trama dei temi, delle evocazioni, dei riferimenti, delle apostrofi e degli appelli, delle figure retoriche, degli apparati metaforici, identificando come cifra tematica riassuntiva il distico finale del quinto Salmo: Iusti empios palam execrentur mecumque Dominum una colant et ament. È la duplice tonalità dell’esecrazione esplicita degli empi ma anche della lode corale intrisa d’amore per il Dio della giustizia. Tramandato a noi in un unico codice cartaceo del 1487 conservato nella Bodleyan Library di Oxford, il “pentateuco” salmico di Alberti, come il settenario petrarchesco, conferma indirettamente la pur enfatica esaltazione dei Salmi biblici proclamata da san Girolamo in una delle sue lettere: «Davide è il nostro Simonide, il nostro Pindaro, il nostro Alceo, il nostro Orazio, il nostro Catullo, il nostro Sereno» (53,8).