Parole che mostrano Dio

Il libro miniato più bello del mondo | La «Bibbia Bela» di Borso d’Este conservata nella Biblioteca Estense di Modena

 

da “Il Sole 24 Ore” – 21 febbraio 2016 – di Gianfranco Ravasi

«Io che sono l’È, il Fu e il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo…». Cominciava così la poesia che Borges – nella raccolta Elogio dell’ombra (1969) – aveva lapidariamente intitolato Giovanni I, 14. Il versetto commentato, appartenente a quel capolavoro assoluto, letterario e teologico che è l’inno di apertura del quarto Vangelo, dichiara che il Lógos, il Verbo divino, eterno e infinito che abbraccia e trascende la tridimensionalità del tempo («È, Fu, Sarà»), è divenuto sárx, “carne”, cioè storia e quindi linguaggio umano, contingente, caduco, misero e glorioso, “simbolo” (nel senso etimologico del termine) che unisce in sé carnalità e spiritualità. Di questa “incarnazione” necessaria della Parola divina in parole umane non sempre è stata consapevole la teologia.

Essa, affannata dalla preoccupazione di salvaguardare la verità, si è aggrappata soprattutto al linguaggio formale, logico e cristallino, cercando di spazzare via dal suo cielo la nebula dei simboli, delle immagini, della narrazione, considerate come una velatura che celava la purezza dell’astrazione. In realtà, come appare superbamente nella Bibbia, letteratura e teologia (nel duplice senso di discorso su Dio ma soprattutto di Dio) sono inestricabilmente compatte, proprio come nell’unità del Cristo Lógos e sárx sono inscindibilmente intrecciati, destinati a comporre l’unica persona. Parte da questa premessa Marco Ballarini della Biblioteca Ambrosiana di Milano per comporre un’attestazione teorico-pratica della necessaria convivenza tra teologia e letteratura, come recita esplicitamente lo stesso titolo del suo saggio. Il cuore di questa ricerca molto suggestiva è, perciò, nella dimostrazione che l’effabilità piena del mistero sacro avviene non solo attraverso l’argomentazione ma anche la narrazione, nella riflessione ma pure con la poetica, cioè con la ragione e col sentimento.

Come sviluppare questa tesi fondamentale che potremmo definire da crinale lungo il quale si possono tener insieme i due versanti di un ideale monte santo? La via è necessariamente quella storico-testimoniale che parte paradossalmente dalla vetta, con le Scritture bibliche, folgorante conferma dell’intima unità tra messaggio e linguaggio, tra verità e letteratura, tra asserto ed evento. È curioso che in ebraico su un unico vocabolo, dabar, custodisca in sé il significato duplice (per noi spesso antitetico) di “parola, detto”, e “fatto, evento”. Da lassù Ballarini scende di balza in balza con soste che egli sa evocare in forma “impressionistica” dissolvendo la pedanteria dimostrativa dell’accademia filologica, ma senza che la sostanza tematica si volatilizzi nell’approssimazione priva di rigore.

Così, in un primo itinerario storico si passa attraverso le tappe della letteratura patristica affacciata senza imbarazzo sia sulla sacralità scritturistica sia sulla classicità profana, o quella dei monaci il cui calamo non esitava a vergare Isaia e i Salmi contemporaneamente a Platone o Cicerone.

Ecco poi la teologia scolastica medievale ove, certo, impera la potenza sistematica della ratio posta al servizio della dogmatica, ma non si spegne il respiro della liturgia e della pietà, tant’è vero che il principe di quell’approccio, Tommaso d’Aquino, si rivela anche poeta che trasfigura il tema teologico in canto. La fides si fa, così, canora, per usare un’espressione di Sant’Ambrogio, lui pure teologo e poeta. Tra l’altro, si presenta alla ribalta in quel periodo la mistica, ove la carica veritativa si esprime poeticamente, anzi, approda alla frontiera suprema apofatica ove la parola tace e la visione parla, attraverso un ossimoro emozionante anche per il lettore odierno.

Ma lasciamo tra parentesi altre soste lungo questo primo versante perché c’è un secondo percorso ravvicinato a cui Ballarini vuole condurre il lettore ed è quello dell’incontro tra teologia e letteratura nel Novecento. Egli si affida a cinque autori molto diversi tra loro, penetrando persino nello spazio ove sembrerebbero ergersi tra le due componenti delle solide cortine di ferro divisorie. Penso a Karl Rahner, il teologo Tedesco dalla cui lettura di solito si esce stremati, soprattutto se si vuole accedere all’originale tedesco, tant’è vero che il suo fratello Hugo, lui pure teologo ma dotato di una fine attrezzatura letteraria, ironicamente progettava di dedicare gli ultimi anni della sua vita a tradurre in tedesco dignitoso le opere del fratello Karl. Eppure riusciamo a scoprire nell’interpretazione che offre Ballarini alcuni squarci sorprendenti ove il pensiero rarefatto di questo teologo s’incrocia col simbolo e la storia.

Tuttavia, oltre al notissimo che inanella confronti roventi con Kafka, Mann, Hesse, Böll altri ancora, e a un meno noto ma originale e affascinante Jean-Pierre Jossua a cui in queste pagine è dedicato uno stupendo cammeo, sono due le stelle che dominano il cielo del dialogo tra teologia e letteratura nel ’900. Da un lato, l’italo-tedesco Romano Guardini, tanto caro anche a papa Francesco: egli, nel suo desiderio di circoscrivere una Weltanschauung coerente e completa, fa incontrare il messaggio cristiano con la poesia «come luogo in cui l’essenza della realtà si offre con particolare chiarezza e trasparenza proprio nella concretezza» (così Ballarini). Eccolo, allora, confrontarsi con Dante ma anche con Hölderlin e Rilke e con un autore imprescindibile per comprendere il tormento del credere, del comprendere e dell’agire, Dostoevskij.

D’altro lato, ecco l’altra stella di prima grandezza del firmamento teologico del ’900, lo svizzero Han Urs von Balthasar, il cui capolavoro imponente s’intitola emblematicamente Gloria. Una estetica teologica (ben 7 volumi tradotti in italiano dalla Jaca Book). In apertura a quell’architettura mirabile che univa appunto estetica e teologia egli così descriveva il suo progetto: «Quest’opera costituisce il tentativo di sviluppare la teologia cristiana alla luce del terzo trascendentale, di completare cioè la considerazione del verum e del bonum mediante quella del pulchrum… La nostra parola iniziale si chiama bellezza. Bellezza è anche l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare perché essa incorona, quale aureola di inafferrabile splendore, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto».

Lo scavo che egli farà in questa categoria capitale sarà sostenuto proprio dalla grande letteratura universale che saprà svelargli sia l’epifania splendida della gloria divina, sfolgorante anche nella rivelazione cosmica (e qui, con Goethe, ritornano Hölderlin e Rilke), sia la sua alienazione nella follia e nell’eros. Ma le iridescenze della “gloria” si allargano in un ventaglio ricco e complesso di cromie, che Ballarini riesce a sintetizzare con efficacia. Ancora una volta arte e fede si presentano come sorelle, tese come sono a dire (o a tacere) l’ineffabile, l’invisibile, l’infinito che ci precede e ci eccede, pur nella distinzione dei linguaggi e degli statuti espressivi. Per questo Hesse non esitava a scrivere in Klein e Wagner: «Arte significa: in ogni cosa mostrare Dio».